sabato 24 ottobre 2020

CHEAP IS GOOD, AND THE CHEAPEST THING IS YOU

 



Non è il momento delle polemiche (un beato di beep di niente), quindi affermerò che cosa succede ad affrontare un'ondata epidemica con spago e fil di ferro lo abbiamo già visto, a marzo. Ma allegri: per la seconda ondata invece abbiamo spago, fil di ferro e nastro adesivo.
Però il nauseabondo scaricare la responsabilità unicamente sui cittadini è sempre lo stesso.
Siccome siamo alla seconda ondata, che i comportamenti devono essere responsabili dovrebbero averlo capito anche i sassi. Il che non vuol dire necessariamente avere su la mascherina quando si cammina da soli in strada. Però, per esempio, si dovrebbero evitare i mezzi pubblici sovraffolati. Il problema è che la stragranda maggioranza degli utenti di mezzi pubblici li usa perché non ha alternative, non ne possono fare a meno. Miserabili incoscienti che mettono a rischio sé stessi e gli altri!
Si spinge sulla responsabilità del singolo perché ha costi immediati nulli. Le misure efficaci e onerose, per lo stato, beh, per quelle c'è sempre tempo. Facciamo all'anno mai, ok?
Condivido da Pillole di Ottimismo (https://www.facebook.com/pillolediottimismo/posts/191487635925049)
 

DI RESPONSABILITÀ, RITI MAGICI E MARKETING DELL’INEFFABILE

Di Francesca Capelli
(Sociologa, ricercatrice, giornalista – Università del Salvador, Buenos Aires)
Foto di Graham Covington/Unsplash

Che cos’è la responsabilità per i cittadini? L’onore di comprendere, valutare e partecipare o l’onere di doversi addossare tutti i carichi della pandemia?

💊💊💊

Quello della responsabilità è uno dei concetti più abusati durante la pandemia. Responsabilità come sinonimo di colpa, che cancella il caso dalle nostre vite. Chi si ammala non è mai in una posizione neutra: o è vittima dell’irresponsabilità altrui o è a sua volta un irresponsabile che diffonde l’infezione, in quanto incapace di “sacrificarsi”. Come se essere contagiato da un lavoratore essenziale, da un medico durante una visita per tutt’altra causa, da un familiare convivente o da un amico con cui ci si è fermati a chiacchierare per strada cambiasse qualcosa ai fini del decorso della malattia. In realtà, dal punto di vista morale, permette di stabilire chi, di volta in volta, è il “colpevole”, l’irresponsabile. Chi, è vittima innocente e chi, insomma, un po’ se l’è cercata.


“Chi se la cerca” ha un capitale elettorale altissimo: permette agli amministratori pubblici di distogliere l’attenzione dal fatto che se in un ospedale si rompono gli ascensori perché non si fa manutenzione ordinaria (ordinaria), poi succede che le lettighe con i malati Covid salgono nello stesso ambiente di quelle con i malati non Covid, tanto per dirne una.

Non solo. L’irresponsabile è una figura chiave del “marketing dell’ineffabile”, tecnica che le religioni conoscono e applicano benissimo. Se compro un televisore e, quando arrivo a casa, non funziona, torno al negozio e me lo faccio cambiare o restituire i soldi. Ma se prego e non accade il miracolo, è perché non ho pregato abbastanza, non ho fatto abbastanza fioretti e la mia fede non è sufficientemente forte. E così provvedimenti che dovrebbero essere pragmatici, ossia mezzi per raggiungere uno scopo, diventano essi stessi lo scopo. E non basta seguirli, bisogna farlo intonando gioiosamente lodi alla divinità, come i martiri dell’agiografia cristiana. Non basta l’obbedienza, serve la voluttà nella macerazione della carne, roba da fare impallidire i digiuni di Santa Caterina da Siena e le estasi di Santa Teresa (tutte e due, quella di Avila e quella di Lisieux).

Qualcosa di simile avviene in economia da 40 anni: le politiche neoliberiste non risolvono problemi, anzi ne creano o li aggravano, ma gli organismi internazionali come il Fondo monetario internazionale insistono che è la strada giusta, basta solo applicarle con più convinzione. Come dire che, se un farmaco non serve o ha effetti collaterali mortali, non si cambia farmaco, ma si aumenta la dose.


In un’intervista dell’8 ottobre al Corriere della sera, il ministro Francesco Boccia afferma che “la misura contenuta nel nuovo decreto responsabilizza un paese intero”, utilizzando il verbo in modo ambiguo.

Responsabilizza nel senso che tratta i cittadini da adulti, in grado di comprendere semplici informazioni e agire di conseguenza? O responsabilizza nel senso che addossa colpe, punta il dito, chiama in causa, dice “sei stato/sarai tu”. Sei tu il responsabile dell’impennata della curva dei contagi, ma anche della tua stessa punizione.

Un concetto ripetuto continuamente nel discorso pubblico di amministratori locali come De Luca e che rimbalza sui social. Dove si moltiplicano i post che inneggiano al pugnodurismo, con la postilla che, sì, se fossimo tutti più responsabili certi provvedimenti non sarebbero necessari, ma che lo diventano “per colpa di quelli che”. Ben venga dunque – ultimo casus belli – la mascherina da portare tutto il tempo, anche all’aperto senza assembramenti se serve a “responsabilizzare, “a tenere alta la guardia” (parole di Andrea Crisanti).

Di nuovo, la funzione che aveva il cilicio ai tempi di Iacopone da Todi: memento mori, strumento di penitenza, a memoria della propria natura corruttibile. Peccato che fosse il ‘200.

Per provare a problematizzare la nozione di responsabilità in modo che si trasformi da gioco lose-lose a win-win, chiediamo aiuto a tre filosofi molto diversi tra loro.

Il concetto è abbordato da Immanuel Kant nel suo saggio “Che cos’è l’Illuminismo”. Secondo il filosofo, “l’Illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità di cui egli stesso è colpevole. Minorità è l’incapacità di servirsi della propria intelligenza senza la guida di un altro”. In altre parole, l’Illuminismo esiste, ma mancano gli illuministi, ossia l’umanità non è ancora abbastanza matura per essere libera di servirsi della propria intelligenza. Un’umanità adolescente, che morde il freno, ma che ha ancora bisogno di guide. A questo punto entra il ballo il “precettore ganzo”, “l’intellettuale non allineato”.

Quello che si prende la responsabilità di dire che “il re è nudo” e di traghettare l’umanità verso l’Illuminismo (Aufklärung). Non un professor Keating, più adolescente dei suoi stessi studenti, manipolatore e incapace di assumersi la responsabilità (ancora questa parola) di ciò che ha smosso (che no, non va nella direzione dell’Illuminismo). E nemmeno il prete appena ordinato, responsabile della pastorale dei giovani, quello che gioca a calcio e suona la chitarra, ma sempre prete resta, messo lì a sorvegliare che nessuno si perda, in nome di una pedagogia e di una politica di impostazione ortopedica, che se il cittadino non lo raddrizziamo subito, chissà come si storce, manco fosse una pianta.

Kant incita l’umanità a liberarsi dalla minorità, con parole che sembrano scritte apposta per questi tempi: “È dunque difficile per il singolo uomo tirarsi fuori dalla minorità, che per lui è diventata come una seconda natura” scrive. “È giunto perfino ad amarla, e di fatto è realmente incapace di servirsi della propria intelligenza, non essendogli mai stato consentito di metterla alla prova. Precetti e formule, questi strumenti meccanici di un uso razionale, o piuttosto di un abuso, delle sue disposizioni naturali, sono i ceppi di una permanente minorità”.

E più avanti, in un passaggio quasi profetico, aggiunge: “Ma sento gridare da ogni lato: non
ragionate! L’ufficiale dice: non ragionate, fate esercitazioni militari! L’intendente di finanza: non ragionate, pagate! L’ecclesiastico: non ragionate, credete! (Un unico signore al mondo dice: ragionate quanto volete e su tutto ciò che volete, ma obbedite!)”.

Il pensiero di Kant, dunque, è l’opposto di quello dei pugnoduristi, dei blastatori, di chi fa valere il principio di autorità (che spesso è solo un principio di notorietà) sui dati scientifici.


Non meraviglia che Michel Foucault abbia dedicato al saggio di Kant non una, ma due conferenze. Dove sottopone a critica la stessa ragione illuministica, il cui uso illegittimo “fa nascere, insieme all’illusione, il dogmatismo e l’eteronomia”. Ma questo non significa, per il filosofo francese, che si debba per forza essere pro o contro l’Illuminismo. Anzi “si deve rifiutare tutto ciò che assume la
forma di un’alternativa semplicistica e autoritaria: o accettate la Aufklärung e restate nella tradizione del suo razionalismo (il che è considerato da alcuni come positivo e da altri, invece, come un rimprovero); o criticate la Aufklärung e allora cercate di sfuggire a questi princìpi di razionalità (il che, ancora una volta, può essere considerato un bene o un male)”. Che è ciò che hanno tentato di fare in questi mesi molto intellettuali e scienziati, strattonati o insultati da una parte e dall’altra.


È possibile uscire dal paradosso? Non per Foucault, ma per Hannah Arendt sì. L’autrice di “La banalità del male” distingue, quando parla della Shoah, tra responsabilità politica e responsabilità morale. Quest’ultima è personale ed è la colpa, da attribuire solo a coloro che si sono macchiati di delitti o che hanno contribuito a perseguitare gli ebrei o anche sono stati indifferenti.

Ma c’è un altro livello di responsabilità, politica, collettiva, che riguarda – dice Arendt – tutti i tedeschi, compresi quelli che non hanno aderito al Nazismo o addirittura lo hanno combattuto, pagando magari con la vita. Deriva dal fare parte di una comunità, nella consapevolezza che il grado zero di responsabilità non esiste, per il solo fatto che gli esseri umani agiscono e le loro azioni sono imprevedibili, irreversibili e illimitate, cioè producono conseguenze.

Arendt è la teorica dell’azione, intesa come attività con la quale gli esseri umani entrano in rapporto tra loro, ma anche come manifestazione della pluralità del mondo, del fatto che l’umanità è costituita da uomini (uso il plurale inclusivo al maschile per una quesitone filologica) e non da un solo uomo. Se l’azione fa parte della natura umana, l’agire insieme è la politica.

L’agire politico non è eseguire, fare senza chiedersi perché, obbedire senza mettere in discussione, rinunciando alla razionalità. Come se rigare dritto fosse la garanzia della felicità (non ce lo ripete continuamente il marketing dell’ineffabile?). Come se inginocchiarsi non fosse un modo come un altro per dire “io”.

Nelle “Città invisibili”, Italo Calvino scrive che l’unico modo per salvarsi dall’inferno è accettarlo o riconoscere, nell’inferno stesso, ciò che inferno non è. Analogamente, potremmo dire che per salvarsi da ogni totalitarismo è necessario riconoscere, nel paradiso, ciò che paradiso non è. E riconoscerlo in fretta, prima che sia troppo tardi.


Bibliografia
Hannah Arendt, “La banalità del male: Eichmann a Gerusalemme” (Feltrinelli, 2019)
Hannah Arendt, “Religione e politica” (Feltrinelli, 2013)
Immanuel Kant, Michel Foucault, “Che cos’è l’Illuminismo?” (Mimesis, 2012)
Italo Calvino, “Le città invisibili” (Einaudi, 1972)

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