Egregio Signore,
mi è parso che, parlando di cose doverose e costruttive, nel suo caso una risposta pubblica fosse dovuta. Sorvolerò sulla "supposta aristocrazia intellettuale" (qualche citazione e qualche riflessione farebbero aristocratizia? Non credo). Ma con l'accusa di elitarismo tocca un nervo scoperto, perché qua sopra c'è sempre stata una feroce avversione per l'elitarismo politico e, per quanto a parole, ci si è sempre spesi per la difesa della democrazia.
Considerato tutto questo mi scuserà se parlerò di elitarismo percepito.
Cerchiamo di stabilire alcune premesse: elitarismo politico è una cosa, elitarismo culturale percepito un'altra e non sono parenti. Perché sono convinto che si sia giocato a lungo a confondere i due differenti piani.
Se "alzare il livello per salvaguardare il messaggio" viene percepito come elitario è meglio dare di nuovo un'occhiata ai risultati dell' "abbassare il livello per far passare il messaggio". Al di là delle considerazioni generali citate nel post a cui si riferisce, quale è stato il prodotto medio della popolarizzazione della scienza? Fede nella scienza, "scienza non democratica", pulsioni epistocratiche, critica del suffragio universale. E non credo che il verbo "democratizzare" abbia niente a che fare con tutto questo.
Su tutto ciò la confusione è stata massima: come si è visto il passaggio da "la scienza non è democratica" a "Ottemperate e zitti!" è avvenuto senza sforzi, forse perché fin dall'inizio le due posizioni coincidevano.
Ma non solo: l'approccio "abbassare il livello" ha finito per aumentare a dismisura la sostanziale diversità tra il modo delle discipline scientifiche e la scienza-segno (quella del post a cui lei si riferisce). La vulgata scientifica è diventata "verità scientifica" e come tale è filtrata nella politica e nel processo legislativo prima, nella giurisprudenza poi.Ci sono precedenti altamente significativi, ma veniamo al più recente esempio. Le sentenze della Corte Costituzionale sul Green Pass erano basate sul fatto che, in tempi di Omicron, la vaccinazione preservasse non solo la salute del vaccinato ma anche quella degli altri. Cioè incorporava nella giurisprudenza, usandola come fondamento della sentenza, la vulgata "i vaccini frenano la trasmissione del virus". Al di là delle considerazioni già fatte al riguardo, andando a esaminare uno degli articoli più citati del tempo per avvalorare la tesi si trovano Odds Ratio, p-value ma niente C.I. : in breve, non si aveva idea di quale fosse l'errore sui valori riportati, cioè non si poteva sapere niente della significatività statistica dello studio (potrei aggiungere che la mancanza di C.I. rendeva la cosa molto sospetta). Eppure su numeri così fragili in Italia sono state sospese libertà costituzionali e tale sospensione è stata giudicata legittima dall'Alta Corte.
Se il passaggio non è abbastanza chiaro: l'abbassamento del livello (la popolarizzazione della scienza), che avrebbe dovuto democratizzare il sapere, ha creato invece le premesse per uno scientismo pop con tendenze antidemocratiche che ha infettato politica, processo legislativo e giurisprudenza. Non è un caso se in tempi recenti si è potuto leggere che alla base della vita politica dello stato costituzionale ci sono scienza, politica e opinione pubblica, esattamente in quest'ordine. E se in tutto questo non si rileva una profonda distorsione della natura di una democrazia inutile stare a discutere.
In questa chiave l'elitarismo percepito, opposto alla popolarizzazione della scienza, lavora per la difesa della democrazia. A meno che non si voglia una democrazia dove i diritti dell'individuo esistono solo se si crede alla "scienza", cioè alla vulgata del momento.
Riguardo le "indebite generalizzazioni" sulla divulgazione scientifica: ovvio che esistano eccezioni, ma le eccezioni non fanno la regola e negli ultimi anni alcune sono state fieramente avversate (penso a quel che è stato nel 2020 Pillole di Ottimismo e a Sabine Hossenfelder, per fare due esempi). La cifra media della attuale "comunicazione della scienza" ai miei occhi è inequivocabile. Sulla "pedagogia": ho ripetuto alla nausea che lo scopo dell'operazione CS era la critica, che la sua natura era politica, che non aveva niente a che fare con la divulgazione. Quindi mi spiace, ma un'impostazione pedagogica qua sopra non ci sarà mai.
Quanto alla democratizzazione del sapere, di preciso cosa si intende?
A parte l'immenso problema dell'istruzione, l'accesso alla comprensione è un nonsenso: la comprensione è un processo eminentemente individuale. Quindi per me l'unica possibile democratizzazione del sapere è il democratizzare l'accesso alla conoscenza e di questi tempi la cosa è stata ampiamente realizzata tramite la rete. Con un click si traducono in qualsiasi lingua i contenuti scritti in qualsiasi altra lingua. Nel momento in cui l'accesso lo hai e trovi il contenuto difficile sta a te decidere che farci: scegliere per uno sforzo di comprensione o lasciar perdere. Se a qualcuno fosse venuto in mente di dire a Mario Praz "Scusi, ma nei suoi saggi dovrebbe esprimersi con un italiano più semplice" probabilmente l'autore lo avrebbe preso per folle. Nessuno avrebbe mai considerato di chiedere a Gibbs: "Scusi, può riscrivere in modo più semplice le sue equazioni dell'equilibrio chimico?". Dovremmo forse chiedere ad un interprete di Bach di rendere l'Arte della fuga più accessibile alla maggioranza del pubblico generale? Giusto per chiarire, ho fornito esempi rilevanti senza nessuna intenzione di accostarmi a loro.
Non credo si possa chiedere a nessuno di scendere al minimo comune multiplo culturale per "democratizzare la conoscenza". Credo che invece la ricchezza delle diversità di approccio e di stile nel linguaggio e nel pensiero siano le necessarie premesse di una vera democrazia.
Marilena Falcone è stata cooptata nella discussione sul commento del Signor Lettore, le ho chiesto di raccogliere e organizzare le sue idee al riguardo e quel che segue è il risultato.
Democratico deve essere il “sapere”, ma la scienza no, quella non è democratica. Ma è uno scherzo?
Il sapere è democratico se garantisce a tutti accesso allo studio, ai libri, all’istruzione, sia in maniera formale che informale. Il sapere deve essere alla portata di tutti, ma non è “di tutti”. È di chi lo vuole, di chi se lo prende. Il sapere è una scelta, perché studiare è una scelta, e arriva sempre il momento in cui ci si accorge che il proprio sapere è limitato. So di non sapere, che significa anche: so che pure gli altri non sanno. So che la conoscenza è un cammino in continua evoluzione che si percorre tutti assieme e non in maniera lineare. Ovvio che quanto più il discorso si fa specialistico tanto più il linguaggio diventa tecnico, inaccessibile a chi non è del campo, per quanto si provi a semplificare. Oltre un certo punto non si può andare, con le semplificazioni.
Allora cosa si deve fare?
Dare il “controllo assoluto” del sapere a qualche vate autodafé che, con la scusa di divulgare, banalizza, scarnifica tutto riducendolo a tre o quattro slogan precostituiti e anathema sit chi se ne discosta? Questo sarebbe il processo democratico del sapere? Questa è la divulgazione democratica?
A me, caro Chimico, questo sembra proprio, semmai, un modo molto elitario di porsi, anzi, un modo oligarchico borderline paraculo: o voi, pòre bestie che nulla sapete e nulla capite, affidatevi a me! Ci penso io a voi, ci penso io a dirvi cosa dovete pensare e a filtrare il vostro sapere, voi non vi preoccupate.
Eh no.
Lo studio porta al sapere, anzi a porzioni di sapere, e sì, studiare fa fatica, leggere e informarsi fa fatica, pensare fa fatica e formarsi una opinione fa fatica. Cambiarla, poi, non ne parliamo. Accorgersi di non essere abbastanza preparati per comprendere appieno un discorso e decidere se restare nel limbo o fare un passo indietro e approfondire un poco per mettersi in pari, fa fatichissima.
Se una persona mi stima e rispetta abbastanza come lettrice, per quanto ignorante, da accompagnarmi su percorsi ostici, offrendomi non solo un linguaggio consono al contesto, mica pizza e fichi, ma anche millemila link per approfondire e arricchirmi da sola, si sta ponendo nei miei confronti come “élite intellettuale”?
A me non sembra proprio. Mi sta mettendo a disposizione strumenti.
Sta a me scegliere (ah, che parola difficile) cosa fare. Questa è la mia libertà. Scegliere se provare ad arricchirmi un altro po’ oppure mollare e accontentarmi. La trappola della divulgazione come possibilità di rendere accessibile tutto a chiunque senza un minimo sforzo e senza responsabilità (l’ha detto tizio!) è sottile e infida. È la sorella diretta di quel modo di pensare, quello sì elitario, secondo il quale il sapere “giusto” deve essere nelle mani di pochi che lo distillano in modi e tempi scelti da loro al volgo. Chi è un saccente arrogante elitario allora? Chi mi tratta da contenitore incapace? O chi mi offre strumenti lasciando a me il controllo di cosa fare del mio cervello?
A latere lancio un’altra riflessione.
Esiste oggi la possibilità di accettare l’idea che non tutti possano sapere tutto o che non tutti vogliano sapere tutto e che inevitabilmente non tutti possano o vogliano avere una opinione su tutto senza dover per forza essere ingozzati di pappine pre-masticate da altri?
Possiamo prenderci tutto il tempo che ci serve per ascoltare, studiare, provare a capire, mantenere la mente aperta, ammettere che una cosa è troppo difficile per noi, riconoscere che non siamo nati imparati e che nemmeno il più grande e onesto divulgatore può insegnarci tutto, ma solo farci venire voglia di continuare a studiare, prima di incrostarci sull’opinione “giusta” e iniziare a gridarla a nostra volta ai quattro venti al minimo trigger come pugili suonati?
Perché poi alla fine a me sembra che il problema sia questo: il controllo delle opinioni altrui. Che tanto democratico non è.
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