DI RESPONSABILITÀ, RITI MAGICI E MARKETING DELL’INEFFABILE
 Di Francesca Capelli
 (Sociologa, ricercatrice, giornalista – Università del Salvador, Buenos Aires)
 Foto di Graham Covington/Unsplash
Che cos’è la responsabilità per i cittadini? L’onore di comprendere, 
valutare e partecipare o l’onere di doversi addossare tutti i carichi 
della pandemia?
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 Quello della responsabilità è uno dei concetti più abusati durante la 
pandemia. Responsabilità come sinonimo di colpa, che cancella il caso 
dalle nostre vite. Chi si ammala non è mai in una posizione neutra: o è 
vittima dell’irresponsabilità altrui o è a sua volta un irresponsabile 
che diffonde l’infezione, in quanto incapace di “sacrificarsi”. Come se 
essere contagiato da un lavoratore essenziale, da un medico durante una 
visita per tutt’altra causa, da un familiare convivente o da un amico 
con cui ci si è fermati a chiacchierare per strada cambiasse qualcosa ai
 fini del decorso della malattia. In realtà, dal punto di vista morale, 
permette di stabilire chi, di volta in volta, è il “colpevole”, 
l’irresponsabile. Chi, è vittima innocente e chi, insomma, un po’ se l’è
 cercata.
 
 “Chi se la cerca” ha un capitale elettorale 
altissimo: permette agli amministratori pubblici di distogliere 
l’attenzione dal fatto che se in un ospedale si rompono gli ascensori 
perché non si fa manutenzione ordinaria (ordinaria), poi succede che le 
lettighe con i malati Covid salgono nello stesso ambiente di quelle con i
 malati non Covid, tanto per dirne una. 
 Non solo. 
L’irresponsabile è una figura chiave del “marketing dell’ineffabile”, 
tecnica che le religioni conoscono e applicano benissimo. Se compro un 
televisore e, quando arrivo a casa, non funziona, torno al negozio e me 
lo faccio cambiare o restituire i soldi. Ma se prego e non accade il 
miracolo, è perché non ho pregato abbastanza, non ho fatto abbastanza 
fioretti e la mia fede non è sufficientemente forte. E così 
provvedimenti che dovrebbero essere pragmatici, ossia mezzi per 
raggiungere uno scopo, diventano essi stessi lo scopo. E non basta 
seguirli, bisogna farlo intonando gioiosamente lodi alla divinità, come i
 martiri dell’agiografia cristiana. Non basta l’obbedienza, serve la 
voluttà nella macerazione della carne, roba da fare impallidire i 
digiuni di Santa Caterina da Siena e le estasi di Santa Teresa (tutte e 
due, quella di Avila e quella di Lisieux).
 Qualcosa di simile 
avviene in economia da 40 anni: le politiche neoliberiste non risolvono 
problemi, anzi ne creano o li aggravano, ma gli organismi internazionali
 come il Fondo monetario internazionale insistono che è la strada 
giusta, basta solo applicarle con più convinzione. Come dire che, se un 
farmaco non serve o ha effetti collaterali mortali, non si cambia 
farmaco, ma si aumenta la dose.
 
 In un’intervista dell’8 
ottobre al Corriere della sera, il ministro Francesco Boccia afferma che
 “la misura contenuta nel nuovo decreto responsabilizza un paese 
intero”, utilizzando il verbo in modo ambiguo. 
 Responsabilizza 
nel senso che tratta i cittadini da adulti, in grado di comprendere 
semplici informazioni e agire di conseguenza? O responsabilizza nel 
senso che addossa colpe, punta il dito, chiama in causa, dice “sei 
stato/sarai tu”. Sei tu il responsabile dell’impennata della curva dei 
contagi, ma anche della tua stessa punizione.
 Un concetto 
ripetuto continuamente nel discorso pubblico di amministratori locali 
come De Luca e che rimbalza sui social. Dove si moltiplicano i post che 
inneggiano al pugnodurismo, con la postilla che, sì, se fossimo tutti 
più responsabili certi provvedimenti non sarebbero necessari, ma che lo 
diventano “per colpa di quelli che”. Ben venga dunque – ultimo casus 
belli – la mascherina da portare tutto il tempo, anche all’aperto senza 
assembramenti se serve a “responsabilizzare, “a tenere alta la guardia” 
(parole di Andrea Crisanti). 
 Di nuovo, la funzione che aveva il 
cilicio ai tempi di Iacopone da Todi: memento mori, strumento di 
penitenza, a memoria della propria natura corruttibile. Peccato che 
fosse il ‘200.
 Per provare a problematizzare la nozione di 
responsabilità in modo che si trasformi da gioco lose-lose a win-win, 
chiediamo aiuto a tre filosofi molto diversi tra loro.
 Il 
concetto è abbordato da Immanuel Kant nel suo saggio  “Che cos’è 
l’Illuminismo”. Secondo il filosofo, “l’Illuminismo è l’uscita dell’uomo
 dallo stato di minorità di cui egli stesso è colpevole. Minorità è 
l’incapacità di servirsi della propria intelligenza senza la guida di un
 altro”. In altre parole, l’Illuminismo esiste, ma mancano gli 
illuministi, ossia l’umanità non è ancora abbastanza matura per essere 
libera di servirsi della propria intelligenza. Un’umanità adolescente, 
che morde il freno, ma che ha ancora bisogno di guide. A questo punto 
entra il ballo il “precettore ganzo”, “l’intellettuale non allineato”. 
 Quello che si prende la responsabilità di dire che “il re è nudo” e di 
traghettare l’umanità verso l’Illuminismo (Aufklärung). Non un professor
 Keating, più adolescente dei suoi stessi studenti, manipolatore e 
incapace di assumersi la responsabilità (ancora questa parola) di ciò 
che ha smosso (che no, non va nella direzione dell’Illuminismo). E 
nemmeno il prete appena ordinato, responsabile della pastorale dei 
giovani, quello che gioca a calcio e suona la chitarra, ma sempre prete 
resta, messo lì a sorvegliare che nessuno si perda, in nome di una 
pedagogia e di una politica di impostazione ortopedica, che se il 
cittadino non lo raddrizziamo subito, chissà come si storce, manco fosse
 una pianta.
 Kant incita l’umanità a liberarsi dalla minorità, 
con parole che sembrano scritte apposta per questi tempi: “È dunque 
difficile per il singolo uomo tirarsi fuori dalla minorità, che per lui è
 diventata come una seconda natura” scrive. “È giunto perfino ad amarla,
 e di fatto è realmente incapace di servirsi della propria intelligenza,
 non essendogli mai stato consentito di metterla alla prova. Precetti e 
formule, questi strumenti meccanici di un uso razionale, o piuttosto di 
un abuso, delle sue disposizioni naturali, sono i ceppi di una 
permanente minorità”.
 E più avanti, in un passaggio quasi profetico, aggiunge: “Ma sento gridare da ogni lato: non
 ragionate! L’ufficiale dice: non ragionate, fate esercitazioni 
militari!  L’intendente di finanza: non ragionate, pagate! 
L’ecclesiastico: non ragionate, credete! (Un unico signore al mondo 
dice: ragionate quanto volete e su tutto ciò che volete, ma obbedite!)”.
 Il pensiero di Kant, dunque, è l’opposto di quello dei pugnoduristi, 
dei blastatori, di chi fa valere il principio di autorità (che spesso è 
solo un principio di notorietà) sui dati scientifici.
 
 Non 
meraviglia che Michel Foucault abbia dedicato al saggio di Kant non una,
 ma due conferenze. Dove sottopone a critica la stessa ragione 
illuministica, il cui uso illegittimo “fa nascere, insieme 
all’illusione, il dogmatismo e l’eteronomia”. Ma questo non significa, 
per il filosofo francese, che si debba per forza essere pro o contro 
l’Illuminismo. Anzi “si deve rifiutare tutto ciò che assume la
 forma
 di un’alternativa semplicistica e autoritaria: o accettate la 
Aufklärung e restate nella tradizione del suo razionalismo (il che è 
considerato da alcuni come positivo e da altri, invece, come un 
rimprovero); o criticate la Aufklärung e allora cercate di sfuggire a 
questi princìpi di razionalità (il che, ancora una volta, può essere 
considerato un bene o un male)”. Che è ciò che hanno tentato di fare in 
questi mesi molto intellettuali e scienziati, strattonati o insultati da
 una parte e dall’altra.
 
 È possibile uscire dal paradosso? 
Non per Foucault, ma per Hannah Arendt sì. L’autrice di “La banalità del
 male” distingue, quando parla della Shoah, tra responsabilità politica e
 responsabilità morale. Quest’ultima è personale ed è la colpa, da 
attribuire solo a coloro che si sono macchiati di delitti o che hanno 
contribuito a perseguitare gli ebrei o anche sono stati indifferenti. 
 Ma c’è un altro livello di responsabilità, politica, collettiva, che 
riguarda – dice Arendt – tutti i tedeschi, compresi quelli che non hanno
 aderito al Nazismo o addirittura lo hanno combattuto, pagando magari 
con la vita. Deriva dal fare parte di una comunità, nella consapevolezza
 che il grado zero di responsabilità non esiste, per il solo fatto che 
gli esseri umani agiscono e le loro azioni sono imprevedibili, 
irreversibili e illimitate, cioè producono conseguenze.
 Arendt è 
la teorica dell’azione, intesa come attività con la quale gli esseri 
umani entrano in rapporto tra loro, ma anche come manifestazione della 
pluralità del mondo, del fatto che l’umanità è costituita da uomini (uso
 il plurale inclusivo al maschile per una quesitone filologica) e non da
 un solo uomo. Se l’azione fa parte della natura umana, l’agire insieme è
 la politica.
 L’agire politico non è eseguire, fare senza 
chiedersi perché, obbedire senza mettere in discussione, rinunciando 
alla razionalità. Come se rigare dritto fosse la garanzia della felicità
 (non ce lo ripete continuamente il marketing dell’ineffabile?). Come se
 inginocchiarsi non fosse un modo come un altro per dire “io”.
 
Nelle “Città invisibili”, Italo Calvino scrive che l’unico modo per 
salvarsi dall’inferno è accettarlo o riconoscere, nell’inferno stesso, 
ciò che inferno non è. Analogamente, potremmo dire che per salvarsi da 
ogni totalitarismo è necessario riconoscere, nel paradiso, ciò che 
paradiso non è. E riconoscerlo in fretta, prima che sia troppo tardi.
 
 Bibliografia
 Hannah Arendt, “La banalità del male: Eichmann a Gerusalemme” (Feltrinelli, 2019)
 Hannah Arendt, “Religione e politica” (Feltrinelli, 2013)
 Immanuel Kant, Michel Foucault, “Che cos’è l’Illuminismo?” (Mimesis, 2012)
 Italo Calvino, “Le città invisibili” (Einaudi, 1972)