giovedì 14 giugno 2018

DINAMICHE DELLA FARMACEUTICA FINANZIARIZZATA

A metà anni novanta capitava che sulle riviste del settore chimico-chimico farmaceutico comparissero analisi del business corrente, e spesso riguardavano il settore farmaceutico nel suo insieme. Spesso erano scritti da autori provenienti da MacKinsey, Ernst & Young, Pricewaterhouse & Cooper, le multinazionali dei servizi di consulenza aziendali. Altre volte erano di economisti, altre di analisti finanziari di banche o fondi di investimento. Mi sorgeva spontanea una domanda: come diavolo fa un superragioniere (l'analista) a sapere cosa sta succedendo nell'industria a livello mondiale e quali saranno i motori dell'innovazione? Il tempo, che quasi sempre è galantuomo, mi ha dimostrato che nel 99% dei casi avevano preso colossali abbagli, quando scrivevano qualcosa. Ma quel che scrivevano arrivava in un modo o nell'altro alle giuste orecchie, che erano le orecchie dei consigli di amministrazione e degli azionisti. Gli azionisti, già. La favoletta della democrazia finanziaria è giustappunto una favoletta idiota per orecchie stupide. L'azionariato delle multinazionali del farmaco è sempre stato perlopù "istituzionale": grandi banche, fondi di investimento. Perché verso la fine degli anni 80 si erano buttati sull'industria farmaceutica? Perché prima della prima bolla di internet le multinazionali del farmaco aveva ritorni netti superiori al 20%. Il piatto più ricco in circolazione, o giù di lì. Verso la fine degli anni novanta analisti finanziari e consulenti dalle pagine di riviste come Chemical And Engeneering News (organo dell' American Chemical Society) iniziarono a lanciare un grido d'allarme: la redditività della farmaceutica stava crollando - stava scendendo sotto il 20%! Presto il settore si sarebbe trovato nella pietosa situazione dell'agrochimica, con i suoi fetidi ritorni del 3-5%. E cominciarono a girare parole come "consolidamento", che sarebbe servito a mettere insieme le famosissime "sinergie" che ovviamente avrebbero avuto un enorme peso sulla ricerca.
Ricordo che negli anni 90 Clinton, con un duro lavoro, abrogò il Glass Steagall Act. Abolito quello ogni banca poteva fare la banca d'affari, e perdipiù potendo contare sul serbatoio dei depositi. Dico questo perché sono del parere che il motore delle grandi fusioni/acquisizioni del nuovo millennio siano stati i grandi azionisti, cioè le grandi banche. Il tutto cominciò con una fitta attività di demerging e fusioni principalmente centrata in UK. Il grande conglomerato ICI fu sezionato, la farmaceutica divenne Astra che poi si fuse con gli svedesi di Zeneca. Upjohn si fuse con Pharmacia. Questa prima fase non fu caratterizzata da chissà quali ristrutturazioni. Ma poi il paradigma cambiò. E fu l'acquisizione di Warner Lambert da parte di Pfizer, evento epocale, primo episodio della nuova politica industriale di Pfizer: "compra e licenzia". A stretto giro la fusione tra Glaxo Wellcome e SmithKline and Beecham, che avrebbe generato GSK. E anche qui i tagli si videro, eccome. Molte strutture della ricerca SK&B rimasero fuori, come spinoff o chiuse. Poi... poi il nuovo millennio ha visto Pfizer comprare Pharmacia e poi Wyeth, Merck comprare Schoering Plough e via dicendo. E una cosa è sicura: ogni fusione ha generato fior di profitti per le banche advisor e un taglio nelle strutture di ricerca. Una quantità di siti spariti, per sempre. Chi ci lavorava perlopiù congedato senza troppi convenevoli. Qualcuno stima che dall'inizio del nuovo millennio l'headcount nella ricerca farmaceutica globale sia sceso di qualcosa tipo 100.000 unità. Quindi forse le fusioni che avrebbero generato sinergie sulla ricerca erano una favola propagandistica. E negli ultimi anni abbiamo assistito a un fantastico programma di buyback di azioni da parte delle aziende, coperto contabilmente da... taglio di spese di ricerca. Pfizer quest'anno ha ricomprato sue azioni per cinque miliardi, GSK buy back ripetuti, 2 miliardi nel 2011, quest'anno in cantiere altri 8 miliardi. Merck buyback da 10 miliardi nel 2015. Ovviamente gli azionisti, rientrando del loro investimento, hanno festeggiato. I ricercatori lasciati per strada meno.
Questo è un excursus (a memoria e a braccio) sulla finanziarizzazione dell'industria farmaceutica.
Quali ne sono state le conseguenze su un piano industriale?
Il processo ha favorito l'offshoring e dato un nuovo significato all'outsourcing. Termini che avrete già sentito: offshoring è la delocalizzazione, il ricollocamento di attività produttiva in paesi a basso costo, outsourcing è l'esternalizzazione di funzioni aziendali o servizi.
Negli anni novanta i due fenomeni avevano natura e intensità diversa da quella attuale.
Nell'accezione a cavallo dell'inizio del nuovo millennio l'outsourcing poteva essere guidato dalla necessità di accesso a ulteriori risorse quando le proprie erano completamente impegnate o dall'accesso a tecnologie non internamente disponibili. La breve vita dello spin off di Aereojet, Aerojet Fine Chemicals, per esempio, in parte fu basata sul fatto che fossero tra i pochi al mondo ad utilizzare diazometano su scala produttiva (oltre a essere tossico e a venir prodotto in etere etilico, estremamente infiammabile, il diazometano esplode a guardarlo o giù di lì).
Verso la fine del millennio c'erano una serie di piccole aziende negli USA che vivevano di outsourcing dell'industria farmaceutica nell'appoggio a ricerca e sviluppo: Medichem, Irix, AMRI. Di loro resta solo AMRI, diventata una piccola multinazionale grazie ad una vicenda curiosa su cui magari mi dilungherò in un'altra occasione. Ma col nuovo millennio che avanzava le cose cambiarono.
Nel 2003 una mia ex collega era stata a Londra a una conferenza interna di GSK che parlava di politiche di outsourcing dell'azienda. Mi chiamò per raccontare le conclusioni:"Sai che GSK ha concluso che i partner italiani sono competitivi quanto quelli indiani? Il costo poco più alto è compensato dalla qualità del lavoro e dal maggior rispetto dei tempi di consegna" .
Nell'autunno del 2005 GSK (assieme a quasi tutti gli altri) sganciò i partner europei per rivolgersi ad aziende asiatiche. Per la prima volta servivano 1.3 dollari per cambiare un euro. Più che sufficiente a perdere la competitività certificata due anni prima.
La chiusura di centri ricerche è stato un leit motiv del periodo 2005-2010.
Il razionale è sempre lo stesso: costi eccessivi della ricerca. Ma il grosso dei costi è sempre stato nei trial clinici, non nei centri ricerche. Però le spese dei trial non possono essere ridotte, quindi si taglia dove si può, cioè sui centri ricerche, magari aprendone un a Shangai per compensare (con costi di esercizio cinque volte inferiori).
Nel 2010 un collega raccontò di aver incontrato  a un BioEurope (fiera del settore centrata sulla ricerca)  il vicedirettore delle ricerche di AstraZeneca, che conosceva da tempo. Gli chiese "Come va con il partner indiano?" quello rispose "Malissimo, in cinque anni non hanno cavato un ragno dal buco su nessun progetto" "E cosa intendete fare?" "Continuare così, costano talmente poco...". Sette anni dopo AstraZeneca è ufficialmente alla canna del gas, o giù di lì.
All'incirca nello stesso periodo qualcun altro raccontava che aveva visitato Wu Xi Pharmatech, che nella seconda metà del decennio era diventata la powerhouse cinese  globale dell'outsourcing per i servizi chimici alla ricerca farmaceutica. Chi lo guidava nel tour dell'enorme struttura gli indicava gli edifici dicendo "Questo è il Pfizer building, quello il building GSK...": un edificio dedicato per ogni grande cliente. E oggi sappiamo quanto sia servita questa politica industriale a questi grandi clienti. Ma era una politica estremamente economica.
Non è che i famosi analisti e consulenti e advisor bancari siano estranei a tutto il processo: fino a qualche anno fa c'era qualche consulente che si era specializzato nel reperire partner indiani e cinesi: "Non sapete che in Cina ci sono world class technologists ansiosi di lavorare a prezzi fino a un decimo di quelli dei vostri partner occidentali?". La faccia di bronzo di chi fa promozione commerciale. Nel 2009 una delle più grandi banche di Wall Street aveva distribuito alla propria clientela industriale un dossier che metteva nero su bianco gli immensi benefici della delocalizzazione in Asia.
Intendiamoci, le strutture USA delle multinazionali del farmaco si erano riempite di cinesi e indiani laureatisi in università americane o inglesi, e molti di loro erano poi ritornati a lavorare nel settore in patria. Ma l'ambiente vuol dire molto, moltissimo, per quel che riguarda la produttività della ricerca...
Un collega yankee ebbe a commentare tutte queste vicende con un lapidario "Pay peanuts, get monkeys". Ma "cheap is better, no matter what" continua ad essere il primo comandamento in moltissimi contesti.

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