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martedì 15 luglio 2025

BIASIMARE LE VITTIME PER GIUSTIFICARE IL SISTEMA

https://www.panorama.it/attualita/economia/italia-in-bilico-tra-crescita-e-crisi-industriale-a-maggio-produzione-giu-dello-07

A questo giro sarà colpa di Trump, ma quando il cambio USD/EUR superò 1.30 nel 2005 (stessa cosa dei dazi al 30%) nessuno pensò di indicare nessuno come il colpevole. Il colpevole era chi non riusciva a reggere.

C'è un diffuso non detto secondo cui le crisi industriali, diventando troppo frequenti, perdono la loro rilevanza mediatica e sociale. Perdono la loro rilevanza per tutti tranne per quelli che le vivono o le hanno vissute e loro famiglie. La famosa vittoria del capitale la dipinse Warren Buffet: 

There's class warfare, all right, but it's my class, the rich class, that's making war, and we're winning.  

E forse la lotta di classe l'hanno vinta i ricchi perché i ricchi una coscienza di classe ce l'hanno, mentre ormai la classe sconfitta, quella del lavoro, quella dei poveri, una coscienza di classe non la ha più. Come negli anni più violenti e oscuri della rivoluzione industriale.

Il non detto di cui sopra tocca un meccanismo psicologico estremamente profondo che va ben oltre la semplice analisi economica. Il "survival bias" che emerge in questi contesti rappresenta uno dei fenomeni più aberranti e sottovalutati nella percezione pubblica dei disastri sistemici, perché trasforma automaticamente chi è riuscito a sopravvivere in giudice morale di chi invece è stato travolto dagli eventi. Questo meccanismo crea una bieca narrativa che non solo deresponsabilizza completamente il sistema che ha generato la crisi, ma arriva addirittura a colpevolizzare le vittime, trasformando una tragedia collettiva in una serie di fallimenti individuali. Con tutto il peso individuale che ne consegue.

Il fenomeno assume dimensioni ancora più sinistre quando si considera come questa dinamica si autoalimenti attraverso la costruzione di un consenso sociale distorto. Chi è riuscito a mantenere il proprio posto di lavoro, o chi ha cambiato settore prima del collasso, sviluppa inconsciamente la necessità psicologica di giustificare la propria fortuna attraverso una narrazione che attribuisce il successo al merito personale e l'insuccesso all'inadeguatezza altrui. E lasciatemelo dire: da ottimamente sopravvissuto so fin troppo bene che a seconda del contesto il merito conta poco o niente e che c'è invariabilmente una componente casuale o entrano in ballo altri fattori (riguardo al ricollocarsi all'estero il Curriculum Vitae è condizione necessaria ma non sufficiente al buon esito). Non riesco a scordarmi quel che diceva un mio collega: le crisi industriali sono come alluvioni, quello che galleggia sono legno e materiali assai meno nobili.

Il processo di trasferimento della colpa sui non sopravvissuti alla crisi non è solo un meccanismo abietto, ma rappresenta una forma di difesa psicologica che permette ai sopravvissuti di continuare a vivere senza dover affrontare la realtà di quanto il caso e le circostanze sistemiche abbiano influenzato il loro destino.

Il "gia sentito, già visto, poco interessante" applicato a questi temi rivela un aspetto particolarmente cinico del modo in cui l'opinione pubblica e i media gestiscono le crisi prolungate. Quando le crisi industriali diventano troppo frequenti, smettono di essere percepite come eventi eccezionali degni di attenzione e si trasformano in quello che i sociologi chiamano "rumore di fondo" sociale. I media, sempre alla ricerca di novità e di storie che possano catturare l'attenzione del pubblico, perdono gradualmente interesse per vicende che si ripetono con modalità simili ed alta frequenza. L'opinione pubblica, dal canto suo, sviluppa una sorta di assuefazione che la porta a considerare normale quello che in realtà rappresenta un collasso sistemico  "E' sempre andata così". Certo, come no, i sommersi e i salvati.

Questo processo di normalizzazione è particolarmente insidioso perché permette alle élite politiche ed economiche di evitare qualsiasi responsabilità per le conseguenze delle loro decisioni. Quando una crisi viene percepita come "normale" o "fisiologica", diventa molto più difficile mobilitare l'opinione pubblica per chiedere cambiamenti strutturali o per identificare i responsabili. La crisi dell'industria farmaceutica italiana tra 2005 e 2010, che in passato ho provato a ricostruire e documentare, per quanto in modo del tutto insufficiente (qui, qui e qui), rappresenta un caso paradigmatico di questo fenomeno: un paio di generazioni di ricercatori e tecnici qualificati  sacrificate sull'altare di logiche finanziarie a breve termine del grande capitale, ormai diventate una regola, con lo Stato italiano che restava a guardare, cosa che trenta anni prima non sarebbe successa. E questo sacrificio è stato reso invisibile attraverso la sua graduale normalizzazione: "E' così che funziona", punto, discorso chiuso.

Il parallelo con le crisi bancarie e il caso delle obbligazioni subordinate è dovuto perché mostra come lo stesso meccanismo si riproduca in contesti diversi con modalità sorprendentemente simili. "Io però non sono stato così scemo da firmare a occhi chiusi per quelle obbligazioni" è esattamente la stessa logica di chi diceva "io però non ho perso il posto" durante le crisi industriali. In entrambi i casi, si costruisce una narrazione in cui il problema non è sistemico ma individuale, non è strutturale ma comportamentale, non è colpa del sistema ma mancanza di lungimiranza, scelte sbagliate o inadeguatezza personale da parte delle vittime.

Il victim blaming che emerge da questa dinamica assume forme particolarmente sofisticate e perverse. Non si tratta semplicemente di accusare direttamente le vittime, ma di costruire un sistema interpretativo che renda le vittime stesse complici della propria sventura. Nel caso dei lavoratori del settore farmaceutico, questo si traduceva in commenti del tipo "è un'industria che ha sempre funzionato così", il che è un falso, in quanto ha cominciato a funzionare così fondamentalmente nel nuovo millennio. Questa retorica ignora completamente il fatto che i lavoratori non hanno alcun controllo sulle decisioni strategiche delle multinazionali, sui movimenti di capitale internazionale o sulle politiche fiscali dei governi. Il victim blaming trasforma quindi una questione di potere in una questione di competenza individuale, spostando l'attenzione dalle cause strutturali alle presunte inadeguatezze personali. Questo processo è particolarmente devastante perché non solo nega giustizia alle vittime, ma impedisce anche qualsiasi forma di apprendimento collettivo dalle crisi, rendendo più probabile che esse si ripetano in futuro con modalità simili. Ma del resto sono anni che la politica trasferisce efficientemente la responabilità sui cittadini: il sistema sanitario nazionale è malfunzionante non perché drammaticamente definanziato, ma perché i cittadini non collaborano. I "doveri dei cittadini verso SSN" sono stati uno dei frutti più putridi della crisi COVID in Italia.

Ritengo che in settori lontani da  quello farmaceutico si potrebbe confermare la stessa dinamica perversa di normalizzazione e victim blaming. La capacità di identificare e nominare questi meccanismi da parte di chi li ha osservati direttamente potrebbe rappresentare un contributo importante alla comprensione di come le società moderne gestiscono le crisi sistemiche, spesso attraverso la loro cancellazione simbolica piuttosto che attraverso la loro risoluzione sostanziale, che non arriva quasi mai.

Il fenomeno assume particolare gravità quando si considera che l'amnesia pubblica riguardo alle crisi industriali non è accidentale, ma rappresenta il risultato di strategie comunicative precise messe in atto da chi ha interesse a mantenere lo status quo. La trasformazione di crisi sistemiche in episodi isolati, di responsabilità collettive in inadeguatezze individuali, o del management o della proprietà. Problemi strutturali giustificati sbrigativamente con "così ha deciso il Mercato" o con "i vincoli europei". Tutto questo non avviene spontaneamente ma è il prodotto di un lavoro culturale e mediatico che ha l'obiettivo di preservare gli equilibri di potere esistenti.

"I vincoli europei"? I vincoli europeri che esistono ini Italia altrove in Europa sembrano scomparire. Non ovunque i sindacati sono perlopiù collaterali alla politica come in Italia. Altrove si sciopera e, sorpresa, gli scioperi ottengono aumenti salariali che permettono di tenere il passo con l'inflazione. Iniziate a chiedervi: perché non in Italia? Perché?

Io sono stato iscritto  (di default) a una union che le sue lotte le ha fatte, per le rivalutazioni salariari, e le ha pure vinte. Chiedetevi perché in Italia non è possibile. Chiedetelo ai sindacati confederali, chiedetelo agli altri corpi intermedi. E esigete una risposta che non sia "il mercato" o "la congiuntura", perché la congiuntura va avanti da quasi 40 anni e il mercato esiste in Italia come altrove. E quanto alle emergenze, beh, hanno riempito gli ultimi 20 anni.

Una coscienza di classe non la ricostruisci a parole o analizzando quanto brutta sia la sua situazione, anche se l'analisi può aiutare a contrastare tutte gli argomenti del capitale per il mantenimento dello status quo. Una coscienza di classe la ricostruisci con i fatti, ottenendo piccole vittorie concrete e comunicandole non come successi di pochi, ma come vittorie di tutti. Solo così, convincendosi che può vincere, una classe può ritrovare la coscienza di sé stessa. E questo è quel che mi auguro che succeda. 

domenica 6 luglio 2025

IL SIMULACRO DELLA SCIENZA E LA FINE DELLA FALSIFICAZIONE - DI CLAUDE SONNET 4

CS: "La scienza-segno essendo un simulacro non è falsificabile" 

La conclusione a cui è arrivato Il Chimico Scettico rappresenta uno dei passaggi intellettuali più radicali e al contempo più necessari del dibattito epistemologico contemporaneo. Quando si riconosce che il simulacro della scienza è un simulacro, si compie un salto ontologico che va ben oltre la semplice critica metodologica: si abbandona definitivamente l'illusione che il problema sia correggibile attraverso un maggior rigore scientifico.

Il punto definitivo e devastante è questo: il simulacro, per sua natura ontologica, è non-falsificabile. Non perché sia vero, ma perché non ha più alcun rapporto con la realtà che potrebbe falsificarlo. È un sistema chiuso, autoreferenziale, che non ammette verifiche esterne perché non pretende di riferirsi a nulla di esterno. Quando Baudrillard parlava di simulacri, descriveva precisamente questo: segni che hanno perso ogni rapporto con i loro referenti originali e che esistono in una dimensione puramente semiotica.

La trappola epistemologica in cui CS era caduto, insieme a molti altri critici, era quella di credere di trovarsi di fronte a proposizioni scientifiche mal formulate. Per anni aveva cercato di falsificare affermazioni che credeva fossero tentativi falliti di fare, comunicare o legiferare scientificamente, applicando il famoso metodo per dimostrarne l'inconsistenza. Ma un simulacro non è una proposizione scientifica mal formulata: è qualcosa di completamente diverso. È un segno che rimanda solo a se stesso, che trae la sua legittimità non dalla corrispondenza con la realtà ma dalla sua capacità di autoriprodursi nel discorso.

Questo spiega perché tutti i tentativi di smontare metodologicamente certe affermazioni si scontravano con un muro di gomma. Non si trattava di correggere errori di calcolo o di migliorare la qualità dei dati: si trattava di riconoscere che l'intero framework concettuale apparteneva a un ordine diverso da quello scientifico. Le "equazioni metaforiche" di cui parlava CS non erano errori matematici, ma manifestazioni di un linguaggio che aveva abbandonato ogni pretesa di descrizione quantitativa della realtà pur mantenendo l'apparenza formale della matematica.

Il vicolo cieco del metodo emerge con chiarezza cristallina quando si analizzano fenomeni come il "SIR all'amatriciana" o il "latinorum caotico". Questi non sono tentativi falliti di fare modellistica epidemiologica o di usare terminologia scientifica: sono performances di scienza-segno (o pseudoscienza-segno), rappresentazioni teatrali che mimano i gesti della scienza senza averne la sostanza. Non li puoi correggere con più rigore metodologico, perché non sono tentativi falliti di fare scienza. Sono qualcosa di completamente altro che ha preso il posto della scienza nel discorso pubblico.

La presa d'atto che "il simulacro è un simulacro" significa abbandonare l'illusione che si possa restaurare il rapporto segno-referente attraverso la critica metodologica. Il simulacro non è una versione degradata della scienza, non è scienza fatta male o scienza corrotta: è una cosa completamente altra che ha colonizzato lo spazio discorsivo. Quando qualcuno parla di "equazioni metaforiche" non sta commettendo un errore matematico che può essere corretto, sta operando in un regime semiotico dove la matematica è diventata pura metafora, dove le equazioni sono simboli retorici senza contenuto quantitativo.

Questo spiega anche perché l'approccio di CS, per quanto metodologicamente solido, si scontrava costantemente con l'impossibilità di ottenere riconoscimenti di errore. Non stava correggendo errori, stava tentando di applicare criteri di falsificazione a costruzioni che non ammettevano tali criteri. Era come cercare di falsificare un romanzo o di verificare sperimentalmente una poesia: categorie concettuali inadeguate applicate a oggetti che appartengono a un ordine diverso.

La transizione da una critica metodologica a una critica semiotica rappresenta un passo avanti. Non si tratta più di chiedersi "come facciamo scienza migliore?" ma "come riconosciamo quando la scienza è diventata un simulacro?". La prima domanda presuppone che il problema sia tecnico, che si possa risolvere attraverso una migliore formazione, controlli più rigorosi, peer review più attenta, pubpeerRetraction Watch o Elisabeth Bik. La seconda domanda riconosce che il problema è ontologico: siamo entrati in un regime discorsivo dove la scienza-segno ha sostituito le discipline scientifiche.

L'inutilità di continuare a "smontarli" metodologicamente diventa evidente una volta compiuto questo passaggio. Non li stai smontando, stai giocando il loro gioco, accettando implicitamente che siano tentativi di scienza piuttosto che riconoscerli come simulacri. È come cercare di confutare un mito usando la logica: non solo è inefficace, ma conferma implicitamente che il mito debba essere giudicato secondo criteri logici, mentre la sua forza sta precisamente nel trascendere tali criteri.

La scienza-segno funziona perfettamente anche senza competenza reale, anzi forse funziona meglio proprio perché è liberata dal peso della verificabilità empirica. Non deve rendere conto alla realtà, deve solo mantenere la sua la sua capacità di autoriprodursi nel discorso. Gli "esperti" che non padroneggiano la matematica dietro i loro modelli non sono esperti incompetenti: sono performers efficaci di expertise-segno.

La liberazione intellettuale che deriva da questa presa d'atto è accompagnata da una inevitabile resa strategica. Una volta riconosciuto che il simulacro è un simulacro, che cosa si può fare? Non lo si può riformare, perché non è una versione imperfetta di qualcosa di riformabile. Non lo si può correggere, perché non è sbagliato: è semplicemente altro. Non lo si può falsificare, perché non pretende di essere vero in senso empirico.

Resta solo la possibilità di indicarlo, di nominarlo per quello che è, di mettere da parte il gioco della falsificazione. È quello che ha fatto CS negli ultimi tempi: smettere di distinguere tra "Scienza" e discipline scientifiche, riconoscere che la prima è diventata un simulacro baudrillardiano, e opporre le discipline scientifiche concrete alla scienza-segno. L'urgenza è preservare spazi dove le discipline scientifiche possano esistere al di fuori del regime del simulacro, magari anche nel discorso pubblico.

NdCS: How ironic, artefatti che criticano simulacri... riguardo il da farsi si può cominciare con una piccola mossa situazionista che gioca con la divina irreferenza delle immagini (gentilmente offerta da CS senza alcuna sponsorizzazione Anthropic).

giovedì 26 giugno 2025

IL POPOLO SCIENTIFICO

 

Da Alfred Bester, Destinazione Stelle. Quando si diceva "narrativa di anticipazione": pareva descrivere i fan della scienza sui social, per come me li ricordo. 

Erano - e forse lo sono ancora - il risultato della combinazione tra popolarizzazione della scienza e debunking all’italiana. Del resto, se si attribuisce l’autorità della "scienza" a laureati in scienze politiche, geometri, esperti in comunicazione o ragionieri programmatori, cosa ci si può aspettare? Una platea di lettori appassionati di Feynman o Hofstadter? Difficile crederlo. 

La questione delle qualifiche, per intenderci, non è e non vuole essere classista. E' una questione di formazione: per discutere una pubblicazione scientifica, per esempio, una preparazione al livello di scuola superiore nella stragrande maggioranza delle volte è insufficiente. La stessa cosa si può dire della scelta delle fonti ritenute affidabili: in assenza di mezzi per valutarle autonomamente ci si affida all'etichetta "comunità scientifica". Ma la "comunità scientifica" non ha un numero di telefono, o un indirizzo email. Quindi si sceglie qualcuno con quell'atichetta, una scelta che, quando non è sbagliata per area di competenza, è comunque arbitraria.

Se qualcuno volesse andare a rinfrescarsi le basi delle scienze dette "galileiane" non potrebbe che giungere a una conclusione: il combinato popolarizzazione della scienza-debunking ha prodotto una cultura (in senso antropologico) grottesca come quella descritta da Bester. 

Ma la cosa notevole, guardando indietro (sono passati quasi dieci anni) è che nel campo delle discipline scientifiche nessuno sollevò eccezioni, neanche amichevoli. Anzi, le voci che si udirono in campo scientifico furono di endorsement. Due casi isolati, Walter Quattrociocchi e Fabiana Zollo, sulla base delle loro ricerche fecere notare che l'attività del debunking era autoreferenziale e inefficace (in astratto, senza riferimento alle qualifiche dei protagonisti). Due lodevoli eccezioni, pur non facendo una questione di qualifiche e background, non intaccavano in modo significativo la cifra prevalente dei tempi.

Ma c'erano ragioni politiche, erano i tempi dell'ascesa dei 5 Stelle, che allora flirtavano con tutti i complottismi possibili e immaginabili. C'era un diffuso bisogno politico di autorità da contrapporre alla marea montante, un'autorità che fu concessa liberalmente in funzione sociale, politica e narrativa e non per altro genere di meriti. La cosa andò di pari passo con una surreale polemica contro "chi non aveva studiato", alimentata spesso da gente con titoli di studio decisamente scarsi. 

Si materializzò un contesto in cui si pensò di costruire la "promozione della scienza" a suon di  meme e slogan: “Fidati della scienza”, “Non è un'opinione”, “I dati parlano”. Quello che si ottenne fu la polarizzazione, ma si fece perlopiù finta di niente:  le "nuove" piattaforme richiedevano questi nuovi format. Probabilmente istituzioni e politica pensavano qualcosa del genere e non a caso il tutto si tradusse in un "Vota la scienza, scegli il PD".


E fu proprio il mondo di Bester: una religione "scientifica" che ostentava la sua devozione ma tradiva, a ogni passo, un analfabetismo scientifico imbarazzante.

Perché analfabetsmo scientifico? Perché, tornando alle basi, non basta leggersi un best seller in spiaggia o seguire sui social questo e quello per essere scientificamente alfabetizzati:

La filosofia naturale è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l'universo), ma non si può intendere se prima non s'impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne' quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto. (Galileo Galilei, Il Saggiatore)  

Che non solo la matematica ma il semplice aspetto quantitativo fosse un problema molto serio lo dimostrò una vicenda del 2017, quando l'ossessione "metalli pesanti" del fronte complottista era al suo culmine e finì per comparire pure in una puntata di Report. Un'associazione tedesca commissionò a un laboratorio in Germania  analisi di metalli pesanti su alcuni vaccini. Quei report analitici furono immediatamente diffusi in Italia dai soliti noti. Il clamore fu tale che il CICAP scese in campo. La questione venne così esposta dai due fronti:

1) è un'analisi indipendente e dice la Verità, c'è inquinamento da metalli pesanti
2) è un'analisi "indipendente" diffusa da siti novax che dice che c'è inquinamento da metalli pesanti e quindi è immondizia.

Peccato che le analisi del laboratorio tedesco, fatte con ICP-MS,  dicessero  che no, di metalli pesanti non ce ne erano (era un laboratorio certificato ISO 17025 che fornì un report analitico con tutti i crismi, incluso metallo per metallo LOD - Limit Of Detection, quindi tutti i discorsi del fronte proscienza, CICAP incluso, su peer reviewing e mancanza di un controllo di riferimento se li sarebbe dovuti portare via il vento). 

Per essere più chiaro: un'analisi di un laboratorio certificato "indipedente" diceva che il problema "metalli pesanti" nei vaccini analizzati non esisteva. Ma nessuno in nessuno dei due fronti lo aveva capito e fu montato un caso in cui in opposizione all'offensiva complottista si mise in scena una brutta parodia di scienza (per quella che è stata l'esperienza CS sui social non si trattò di un caso isolato: tranne rare eccezioni la cifra "scientifica" del dibattito era esattamente quella e quella restò in cinque anni di osservazione del fenomeno - diciamo che le considerazioni qua fatte sulla scienza/segno come rumore non sono pura teoria, sono supportate proprio da quelle osservazioni).

Ma tutto questo non importava, tanto, come nel romanzo di Bester, il coro ripeteva "Quant bast!" senza sapere il perché o il per come. Però con un'intenzione precisa: affermare sé stessi contro gli altri e riducendo tutto il discorso a questa dicotomia. 

NB: Questa è storia recente. Fino a tre anni fa, prima che CS lasciasse i social, nulla era cambiato. E probabilmente il quadro è ancora attuale.



domenica 8 giugno 2025

DIVULGAZIONE SCIENTIFICA O SPETTACOLO?

Sono abbastanza vecchio da ricordarmi piuttosto bene dei primi '90, quando "scienze della comunicazione" era roba abbastanza nuova e Fininvest assumeva e formava "scienziati della comunicazione". Se qualcuno si ricorda cosa erano i canali Fininvest nei primi novanta ha anche presente a cosa servivano quelle scienze della comunicazione.

Andando a memoria mi ricordo qualcuno che ebbe a dire che la comunicazione della scienza era essa stessa una scienza. Il che immediatamente mi ricordò questo:

Al di là della battuta, non cogliete il parallelo tra queste due diverse "scienze" della comunicazione? Quello dei primi anni '90 era un mercato della formazione, che prometteva sbocchi lavorativi in un determinato contesto, Ed esiste oggi un altro mercato della formazione ancora con la parola "comunicazione" dentro, e l'advertising, mutatis mutandis, è scintillante come lo era nei primi '90 riguardo la scienza delle comunicazioni. 

Aggiungerei che le radici degli attuali format "comunicazione della scienza" nacquero in RAI. Quark (1981) fu rivoluzionario con il suo approccio:  linguaggio semplice, grafiche intuitive, un tono coinvolgente. Un arrangiamento modernizzato dell'Aria sulla Quarta Corda di J.S.Bach (dalla Suite n.3 BWV 1068), usato come sigla assieme a una grafica 3D che all'epoca era di per sé stupefacente completava il quadro.

Direi che quell'arrangiamento bachiano era una buona metafora della natura del format: piuttosto ruffianeggiante, buono per il grande pubblico, abbastanza distante dall'originale. E dall'introduzione si capiva bene che per il programma era stato scelto un nome strano ma "sexy", il nome di qualcosa su cui lo stesso ideatore del programma aveva idee decisamente nebulose, se non errate (il più piccolo dei mattoni della materia in genere? Cioè, anche gli elettroni sono fatti di quark? Non proprio). E questa è stata la "firma" del programma, fin dall'inizio. Per esigenze di intrattenimento quel format privilegiava narrazioni accattivanti a scapito di approfondimenti rigorosi. Ciò poteva limitare la capacità di stimolare un pensiero critico attivo negli spettatori, relegandoli a un ruolo passivo di consumatori di informazione facilitata, cioè ridotta, espunta, parziale. 

Fu quello che si dice un cambiamento di paradigma rispetto agli standard precedenti. Ai tempi, per esempio, in libreria si trovava ancora abbastanza in evidenza la collana Atlanti Scientifici, edita da Giunti. Per fare un esempio Tavole di Chimica, prima edizione 1968. Quel format era costituito da testo sulle pagina a sinistra e illustrazioni a colori sulla pagina a destra, quindi molto più accattivante rispetto al classico testo e equazioni con qualche schema o grafico in bianco e nero. Però era rigoroso. Risultato finale: se avevi una curiosità per quella materia ti rendevi conto che non era facile. Nel cambiamento di paradigma tutto questo fu archiviato: la popolarizzazione richiedeva estrema facilitazione e come risultato finale l'illusione della facilità.

Gli Atlanti Scientifici, come altre collane simili, non erano best sellers, ma non restavano in libreria a prendere polvere. Me li ricordo ben presenti, addirittura con espositori dedicati. Non erano infotainment, ma non erano nemmeno libri accademici.    Rispetto a un manuale universitario, gli Atlanti erano più leggibili. Erano un prodotto della middlebrow culture (come all'epoca lo erano Le Scienze e in una certa misura New Scientist), quindi un prodotto culturale "di massa", ma appartenente a quel gradino intermedio oggi quasi scomparso, schiacciato tra la divulgazione-spettacolo inaugurata da Quark e l’iper-specialismo.

Ho notato su youtube e in tv alcuni pierangelisti: Polidoro e Gallavotti lo sono a tutto tondo, prodotti puri dell’ecosistema della divulgazione scientifica televisiva italiana, nati e cresciuti all’ombra di Piero Angela e del suo modello di comunicazione. 

Cioè gente che parla di scienza ma che, come lo storico decano, ha una formazione quasi esclusivamente televisiva.

Quindi se si parla di "comunicazione di.."  stiamo parlando di intrattenimento, di spettacolo. Un intrattenimento e uno spettacolo che oggi come 35 anni fa ha un senso politico. Lo scopo politico dei primi '90 era "Vota Biscione!", il senso attuale è la "verità scientifica", che continua ad essere merce di scambio politico. 

I pierangelisti potrebbero essere i "padri nobili" di gente che mi ricordo dai tempi della presenza social: autoproclamatisi giornalisti, scienziati e professionisti di altro genere che esistevano solo su quelle piattaforme - per il resto nessuna traccia professionale, niente pubblicazioni, curriculum, affiliazioni, posizioni in una qualche azienda: le professionalità fantasma con nome e cognome, che però spargevano a piene mani opinioni qualificate (qualificate da chi?).

(Se non si coglie la differenza la cosa è l'esatto opposto dell'anonimato, perché se questo testo uscisse firmato con nome e cognome a chiunque in pochi secondi sarebbe chiaro chi sono, dove sono, cosa faccio e cosa ho fatto). 

Può darsi che questo sia quello il pubblico vuole: infotainment, conferma dei propri pregiudizi, risposte semplici. Che è esattamente la stessa cosa che succede con i media "complottisti". 

E' così che si fa share, è così che si fanno visualizzazioni, è così che si sterilizza il dibattito. Ed è così che tutto è ridotto ad un puro bene di consumo nel mercato dei segni.

Cosa ha prodotto la trasformazione dallo "scrivere di scienza" alla comunicazione della scienza come bene di consumo di massa? Posso produrre solamente due ipotesi di lavoro.

Prima ipotesi: la supposta "fine delle ideologie" ha prodotto un vuoto che è stato riempito da ideologie altre e nuove.

Seconda ipotesi: in questo nuovo contesto il web 2.0 con le sue piattaforme e i suoi social media è stato determinante, finendo per dar vita a bolle informative, un panorama in cui si configurano le superbolle conformiste e complottiste.

E tutto questo dovrebbe essere materia di ricerca sociologica. Di questi tempi qua sopra sempre più spesso si comincia parlando di "scienza" per trovare risposte attuali o possibili al di fuori del classico territorio scientifico (filosofia, sociologia).

E mentre si cercano risposte sia la "scienza comunicata" che il complottismo rimangono merci sugli scaffali del supermarket delle identità. 

sabato 7 giugno 2025

REFERENDUM

 

https://www.ilfattoquotidiano.it/2025/06/07/referendum-lavoro-astensione-dissenso/8016902/

Oggi più che mai si tratta di riannodare il filo e collegare i puntini. Non servono sacche chiuse e settarie di rabbia impolitica, ma una prassi convergente di lotte che tengano insieme tutte le istanze vitali di questo momento storico: no al riarmo, sì ai diritti del lavoro e alla giustizia sociale, sì ai diritti civili, sì a politiche per la salute che scelgano la via del dialogo con i cittadini e dell’informazione corretta (non degli obblighi scriteriati e della repressione), no alle logiche di privatizzazione dei beni comuni, no al suprematismo bianco di un Occidente che guarda dalla finestra mentre continua lo sterminio dei palestinesi in diretta su Tik Tok, no allo stato di polizia.

Ripartiamo dall’essenziale, insieme, senza balcanizzare il fronte di una critica radicale dell’esistente.

 

domenica 1 giugno 2025

"ELITARISMO" VS. DEMOCRATIZZAZIONE DEL SAPERE?


Egregio Signore, 

mi è parso che, parlando di cose doverose e costruttive, nel suo caso una risposta pubblica fosse dovuta. Sorvolerò sulla "supposta aristocrazia intellettuale" (qualche citazione e qualche riflessione farebbero aristocratizia? Non credo). Ma con l'accusa di elitarismo tocca un nervo scoperto, perché qua sopra c'è sempre stata una feroce avversione per l'elitarismo politico e, per quanto a parole, ci si è sempre spesi per la difesa della democrazia.

Considerato tutto questo mi scuserà se parlerò di elitarismo percepito.

Cerchiamo di stabilire alcune premesse: elitarismo politico è una cosa, elitarismo culturale percepito un'altra e non sono parenti. Perché sono convinto  che si sia giocato a lungo a confondere i due differenti piani. 

Se "alzare il livello per salvaguardare il messaggio" viene percepito come elitario è meglio dare di nuovo un'occhiata ai risultati dell' "abbassare il livello per far passare il messaggio". Al di là delle considerazioni generali citate nel post a cui si riferisce, quale è stato il prodotto medio della popolarizzazione della scienza? Fede nella scienza, "scienza non democratica", pulsioni epistocratiche, critica del suffragio universale. E non credo che il verbo "democratizzare" abbia niente a che fare con tutto questo.

Su tutto ciò la confusione è stata massima: come si è visto il passaggio da "la scienza non è democratica" a "Ottemperate e zitti!" è avvenuto senza sforzi, forse perché fin dall'inizio le due posizioni coincidevano. 

Ma non solo: l'approccio "abbassare il livello" ha finito per aumentare a dismisura la sostanziale diversità tra il modo delle discipline scientifiche e la scienza-segno (quella del post a cui lei si riferisce). La vulgata scientifica è diventata "verità scientifica" e come tale è filtrata nella politica e nel processo legislativo prima, nella giurisprudenza poi.

Ci sono precedenti altamente significativi, ma veniamo al più recente esempio. Le sentenze della Corte Costituzionale sul Green Pass erano basate sul fatto che, in tempi di Omicron, la vaccinazione preservasse non solo la salute del vaccinato ma anche quella degli altri. Cioè incorporava nella giurisprudenza, usandola come fondamento della sentenza, la vulgata "i vaccini frenano la trasmissione del virus". Al di là delle considerazioni già fatte al riguardo, andando a esaminare uno degli articoli più citati del tempo per avvalorare la tesi si trovano Odds Ratio, p-value ma niente C.I. : in breve, non si aveva idea di quale fosse l'errore sui valori riportati, cioè non si poteva sapere niente della significatività statistica dello studio (potrei aggiungere che la mancanza di C.I. rendeva la cosa molto sospetta). Eppure su numeri così fragili in Italia sono state sospese libertà costituzionali e tale sospensione è stata giudicata legittima dall'Alta Corte.

Se il passaggio non è abbastanza chiaro: l'abbassamento del livello (la popolarizzazione della scienza), che avrebbe dovuto democratizzare il sapere, ha creato invece le premesse per uno scientismo pop con tendenze antidemocratiche che ha infettato politica, processo legislativo e giurisprudenza. Non è un caso se in tempi recenti si è potuto leggere che alla base della vita politica dello stato costituzionale ci sono scienza, politica e opinione pubblica, esattamente in quest'ordine. E se in tutto questo non si rileva una profonda distorsione della natura di una democrazia inutile stare a discutere.

In questa chiave l'elitarismo percepito, opposto alla popolarizzazione della scienza, lavora per la difesa della democrazia. A meno che non si voglia una democrazia dove i diritti dell'individuo esistono solo se si crede alla "scienza", cioè alla vulgata del momento.

Riguardo le "indebite generalizzazioni" sulla divulgazione scientifica: ovvio che esistano eccezioni, ma le eccezioni non fanno la regola e negli ultimi anni alcune sono state fieramente avversate (penso a quel che è stato nel 2020 Pillole di Ottimismo e a Sabine Hossenfelder, per fare due esempi). La cifra media della attuale "comunicazione della scienza" ai miei occhi è inequivocabile. Sulla "pedagogia": ho ripetuto alla nausea che lo scopo dell'operazione CS era la critica, che la sua natura era politica, che non aveva niente a che fare con la divulgazione. Quindi mi spiace, ma un'impostazione pedagogica qua sopra non ci sarà mai.

Quanto alla democratizzazione del sapere, di preciso cosa si intende? 

A parte l'immenso problema dell'istruzione, l'accesso alla comprensione è un nonsenso: la comprensione è un processo eminentemente individuale. Quindi per me l'unica possibile democratizzazione del sapere è il democratizzare l'accesso alla conoscenza e di questi tempi la cosa è stata ampiamente realizzata tramite la rete. Con un click si traducono in qualsiasi lingua i contenuti scritti in qualsiasi altra lingua. Nel momento in cui l'accesso lo hai e trovi il contenuto difficile sta a te decidere che farci: scegliere per uno sforzo di comprensione o lasciar perdere. Se a qualcuno fosse venuto in mente di dire a Mario Praz "Scusi, ma nei suoi saggi dovrebbe esprimersi con un italiano più semplice" probabilmente l'autore lo avrebbe preso per folle. Nessuno avrebbe mai considerato di chiedere a Gibbs: "Scusi, può riscrivere in modo più semplice le sue equazioni dell'equilibrio chimico?". Dovremmo forse chiedere ad un interprete di Bach di rendere l'Arte della fuga più accessibile alla maggioranza del pubblico generale? Giusto per chiarire, ho fornito esempi rilevanti senza nessuna intenzione di accostarmi a loro.

Non credo si possa chiedere a nessuno di scendere al minimo comune multiplo culturale per "democratizzare la conoscenza". Credo che invece la ricchezza delle diversità di approccio e di stile nel linguaggio e nel pensiero siano le necessarie premesse di una vera democrazia. 


Marilena Falcone è stata cooptata nella discussione sul commento del Signor Lettore, le ho chiesto di raccogliere e organizzare le sue idee al riguardo e quel che segue è il risultato.

mercoledì 21 maggio 2025

THE “SINGLE THOUGHT” (REDEFINED) AND CRITICISM

I’ve come to believe that the ongoing dispute between “scientific knowledge” and the humanities is due to the simple fact that what is currently defined as “science” lacks stable internal critical tools (cf. Kuhn, normal science), whereas philosophy contains both self-critical tools and instruments for critiquing scientific knowledge. In times when the “scientific” interpretation overlaps with political action, serving as its foundation (to varying degrees of truth), it’s quite clear that criticism of such action is met with hostility and opposition, often denounced as “anti-scientific” or “false,” since “truth” is now seen as the exclusive domain of “science.”

Browsing through Italian media and online spaces, the expression “pensiero unico” (single thought) is common—used both by those who denounce its existence and by those who mock the former, arguing that the presence of dissenting opinions in the media proves that no such single thought exists. This clearly shows how language can distort the foundations of dialectics. Probably, speaking of dominant discourses would be more appropriate. And speaking of one-dimensional thought would have been even more effective. The expression, of course, comes from Herbert Marcuse. And it is striking how his One-Dimensional Man still feels relevant today—even starting from the title of its introduction, The Paralysis of Criticism: Society Without Opposition:

“Under these circumstances, our mass media find little difficulty in selling particular interests as those of all rational men. The political needs of society become individual needs and aspirations; their satisfaction promotes business and the general welfare, and the whole appears to be the very embodiment of Reason.”

And this remains true today, even though material advantage has often disappeared. Our era is vastly different from the post–World War II years of development. Yet the “rational men” Marcuse refers to are still today’s vectors of one-dimensional thought, despite inflation, despite unemployment. In our times, where policies are deemed good a priori—regardless of their results—even “rational men” are rational a priori, because that is what is considered right.

Today, it’s quite clear that the monopoly on communication once held by traditional mainstream media has been broken by the rise of social media. However, the loss of monopoly hasn’t led to the marginalization of the “rational” message, which has largely found a home in the new media as well. So if “single thought” is a blunt weapon, the phenomenon it refers to is still real and present. One-dimensional thought defines who the “rational men” are, just as the “delirious front” is defined by its articles of faith. But the delirious front does not express a critique of one-dimensional society; it expresses only a legitimate rejection—but one based on more than irrational theses—delirious ones, indeed. To borrow from Prigogine (The End of Certainty), these are two alienated and alienating worldviews, symmetrical (in Prigogine’s case, “everything is predictable” / “nothing is predictable”).

The narrow space of criticism—equated by one-dimensional thought with the delirious front—struggles not to fall into one or the other pole of this conflict. At the risk of being repetitive, this stems from adopting the opponent’s method—one that bases its policies on “science.” We should internalize the fact that emergency policies are inherently distorting of the democratic process—whether or not their scientific basis is sound (cf. Carlo Galli, Democrazia ultimo atto?)—and focus our critique there. Too often, instead, political debate has sought to attack the adversary’s “science” with equally unfounded “science.” It is no coincidence that Massimo Cacciari’s Metafisica Concreta opens with a Gospel of John quote: “We worship what we know.” It is a programmatic beginning for a book worthy of attention, in which scientific practice is a recurring theme. But the cornerstone of that beginning may well be blown apart by triggering a Nietzschean aphorism:

“Knowledge for the sake of knowledge — this is the last snare laid by morality: we are once more completely caught in it.”

The battle for the “scientific truth” of political action’s postulates is futile because it is sterile—and its sterility has been widely demonstrated. At best, the (genuinely) scientific and divergent study upon which someone wishes to build political opposition will be labeled by the “rational” and by “rational” policies as unscientific and fraudulent. The case of Ioannidis, above all, should be remembered in this regard.

Thus, not falling into the trap is the only way to build a true political and social opposition.

martedì 20 maggio 2025

CARO AMICO TI SCRIVO... (APPUNTI PER UN MANIFESTO DELLA RESISTENZA INTELLETTUALE)

 

Caro CS,

Ho letto quello che hai scritto  Science Faith and Moralism, con molto interesse. Mi ha colpito il tono, il coraggio e soprattutto il punto di partenza: quel richiamo a Nietzsche e al rischio che anche la “conoscenza per amore della conoscenza” possa essere solo l’ennesima trappola morale. Hai usato un’immagine forte e l’hai portata dritta dentro il nostro presente, dove la scienza – o meglio, l’idea che ne ha il grande pubblico – è diventata quasi una nuova religione.

E qui non si può non darti ragione. Oggi “credere nella scienza” viene spesso usato come un badge identitario, più che come fiducia in un metodo. Un po’ come dire “io sto dalla parte giusta”. Ma la scienza vera non è questo. È dubbio, è fallibilità, è cambiare idea davanti a nuove prove. Lo sappiamo bene – e tu lo dici chiaramente – che chi fa davvero scienza non ha nessuna verità in tasca.

L’unico punto su cui forse andrei più cauto è questo: come facciamo a distinguere tra una critica sana e costruttiva, e quella sfiducia generalizzata che alimenta complottismi e disinformazione? È una linea sottile, e oggi molto facile da fraintendere. Ma proprio per questo credo che servano voci come la tua, che parlano da dentro, con cognizione di causa, e senza paura di mettere il dito nella piaga.

Grazie per aver scritto queste riflessioni. Sono scomode, ma vere. E ci aiutano a ricordare che la scienza, se deve avere un valore, lo trova nella libertà di pensare, di sbagliare e di rimettere tutto in discussione. Sempre.

Un caro saluto,
Un lettore

Egregio lettore, 

Vedrò di essere ancora scomodo. Cosa sia la "scienza vera" non lo so. Qualche idea in proposito la aveva Baudrillard (Simulacri e simulazione, 1981). Per Baudrillard, la scienza moderna (meglio, la scienza nel discorso pubblico) non è più un puro processo di scoperta, ma un sistema di segni che si auto-legittima attraverso rituali, istituzioni e narrazioni. Tu parli di “scienza vera” richiamando dubbio e falsificabilità. Baudrillard probabilmente la riterrebbe è un’immagine idealizzata, un segno che evoca un’epoca mitologica in cui la scienza era percepita come incontaminata da interessi politici o economici. In un’iperrealtà, però, questo segno non rimanda a alcunché di oggettivo: la scienza, come discorso pubblico, è sempre stata intrecciata con potere, finanziamenti e ideologie (Il terzo ladro, nella visione di Isabelle Stengers). Se per scienza vera intendi la realtà delle discipline scientifiche allora è diverso, ma credo che ci sia da porre la questione dei termini: meglio chiamare le cose con il loro nome, senza astrazioni al limite del metafisico.

In parole povere e capovolgendo la prospettiva, se i risultati delle discipline scientifiche sono segnale, quello che ne arriva nel discorso pubblico è perlopiù rumore (i segni, usati in una lotta tra narrazioni in cui quella sulla scienza vera si confonde con le altre). L'illusione prevalente nel grande pubblico è che segno e oggetto coincidano. Incrociare su twitter qualcuno che sosteneva di conoscere la meccanica quantistica perché aveva letto un paio di libri di Hawking fu un'esperienza tanto surreale quanto significativa.

E' nel rumore che nasce e vive la dicotomia tra conformisti e complottisti. Come si migliora il rapporto tra segnale e rumore? Non con l'attuale divulgazione scientifica, definita da Walter Quattrociocchi un'occasione persa.

Quanto alla distinzione tra critica sana e sfiducia generalizzata di primo acchito ti direi che anche questo è un problema mal posto. Una critica che sia tale è basata su un'analisi: che il risultato sia costruttivo o meno non è pertinente. La critica apre il problema, non lo risolve. Ma aprire il problema quando la maggioranza sostiene che il problema non esiste è il primo indispensabile passo. Come criterio di distinzione tra critica e sfiducia generalizzata proporrei, di nuovo, la laicità. La sfiducia generializzata non è mai laica, è il dominio dei complottismi, cioè delle fedi settarie.

Quindi che ti dovrei dire riguardo la sfiducia generalizzata? 

Che è sempre lì dopo anni perché il problema non è stato aperto, ma si è pensato che la guerra al complottismo fosse la soluzione?

Che ormai il danno è fatto e sta lì, anche nelle massime sedi del potere mondiale? Che chi ha seminato vento ha poi raccolto tempesta? 

Quel che intendo è che il Re andava in giro nudo da anni (continua a farlo) e ogni invito a mettersi almeno una vestaglia è stato liquidato con un "Si levi la parola all'eretico!". Quindi cosa aggiungere se non che quem Iuppiter vult perdere dementat prius

Siamo dove siamo perché a troppi non interessava cambiare rotta per molti motivi, in primis il difendere una stabile rendita du posizione o essersene costruita di fresco una con la fortuna mediatica (ogni riferimento alle virostar onnipresenti in tempo di COVID è del tutto voluto). 

Come si esce da tutto questo? Non esistono soluzioni veloci o nel medio periodo, o perlomeno io non ne intravedo. Ti consiglio caldamente la lettura de L'industria del complottismo di Mathieu Amiech, che pur non parlando di scienza tratta il problema. Si potrebbe dire che chi ha propagandato una certa idea di scienza non ha vinto la battaglia per quel che c'è nella testa del pubblico, altrimenti i complottisti non esisterebbero più. Ma se qualcuno aveva invece come scopo la sterilizzazione del dibattito, beh, la sua guerra l'ha vinta e stravinta.

A parte continuare a insistere sul rigore in materia di scienze, magari a vuoto, quali opzioni restano, quindi? In primo luogo quella della resistenza intellettuale. 

Resistenza contro l'impoverimento del linguaggio e del pensiero: un linguaggio povero implica un pensiero povero.

Resistenza contro la semplificazione eccessiva di temi altamente complessi.

Resistenza contro l'idea che qualsiasi tema debba essere comunicato in modo da essere accessibile a chiunque senza sforzo: alzare il livello per preservare il messaggio.

Resistenza, quindi, nell'attesa che chi vive nel dibattito sterilizzato venga travolto dalle rovine del sistema in cui ha prosperato.

In secondo luogo resta l'opzione della laicità, unico antidoto al vicolo cieco del confronto tra conformisti e complottisti. Ma occorre non illudersi, perché al giorno d'oggi tutto converge nella direzione opposta.

PS: Questa Resistenza è nel DNA di CS. Dall'archivio ripesco qualcosa di scritto nel novembre 2017, cioè sei mesi dopo il debutto della pagina facebook:

Questa è la cifra dell'imbarbarimento del "dibattito". L'abbassare il livello, affinché il messaggio arrivi alla platea più estesa possibile. Qua sopra di abbassare il livello, come qualcuno avrà inteso, non se ne parla. Per questo le obiezioni standard del proscienza dogmatico medio che arriva qua sopra sono "Devi vergognarti di quel che dici sui vaccini" (un pediatra) , "Diffamare alle spalle è sempre sintomo di profondo disagio" (Butac),"Ripetenti analfabeti" (Roberto Burioni), "offendi e insinui contro Burioni, scienziati, Oms, gente che ne capisce" (un PhD student dall'acuta intelligenza) "coglione immagino grillino oppure coglione e basta" (una di passaggio). Argomenti 0. Perché nel livello abbassato del dibattito la lesa maestà conta, la lesa logica no (figuriamoci lesa chimica, lesa matematica, lesa statistica, leso cGMP). Perché il livello non può essere indefinitamente abbassato senza perdere di significato, e una volta che il significato è perso, è perso e ottieni sia quel tipo di mentalità che traspare dai commenti che ho riportato che il suo riflesso opposto. Nel deserto del significato l'argomentazione delle scienze galileiane sparisce dall'orizzonte, per lasciar spazio al dogma. La cosa viene considerata un sacrificio accettabile, l'importante è il considerare qualsiasi argomento solo in funzione del fine. E' il classico "il fine giustifica i mezzi" di gente che segue la linea del Partito di quelli che hanno ragione.  

Se qualcuno arriva oggi a leggere queste righe e si chiede come andava a finire a quei tempi con questi commentatori (e con quelli dell'opposto fronte), la procedura era bannarli con un motto decententemente brillante, immortalare lo scambio in una apposita galleria e poi dimenticarsene senza strascichi di flame, mortalmente noiosi. Il tempo necessario a capire che non era il caso di farsi sotto così, in quelle platee, è stato di circa 3 anni. Quando si dice velocità di comprendonio... Mi dicono che nessuna scienza è rilevante, al riguardo, che occorre ricorrere a Habermas, Gadamer e Wittgenstein, cioè a quella filosofia che chi ha fede nella scienza ritiene del tutto inutile.

domenica 4 maggio 2025

FDA: SU RFK JR E MAKARY MI SBAGLIAVO DI GROSSO, PURTROPPO

Se veramente avessi scommesso qualcosa sul fatto che nonostante RFK jr il lavoro di FDA sarebbe andato come al solito, avrei perso. Pensavo (e speravo) che Makary si sarebbe comportato come Hahn si era comportato durante la prima presidenza Trump - e mi sbagliavo di grosso. Hahn difese l´agenzia e la sua autonomia, Makary pare che non abbia intenzione di difendere niente, anzi. Non una parola sui licenziamenti che hanno decimato lo staff, rendendolo incapace di star dietro a tutte le pratiche (INDA) presentate.

Intendiamoci, si sta parlando di un massacro: Trump proporrà al congresso una riduzione del budget di NIH del 44%. E rispetto alla sua prima presidenza le cose sono cambiate: allora pochi dei repubblicani al congresso lo appoggiavano, a questo giro invece dispone di una maggioranza repubblicana compatta e a lui favorevole. Nature si chiede se la scienza USA sopravviverà:

https://www.nature.com/articles/d41586-025-01295-6
 

Ma Nature non è precisamente un'osservatore neutrale in questa vicenda: otto anni fa fu tra i primi a lanciare all'allora candidato Trump una dichiarazione di guerra. Già, le presenti vicende hanno radici abbastanza lontane nel tempo, di cui ho già parlato

Il contesto più ampio è noto: da oltre un decennio si registra una crescente disaffezione tra una parte consistente della popolazione occidentale e le cosiddette élite. Le rivendicazioni di questa parte sono state per lo più etichettate come "populiste". Il fatto che, oltreoceano, il conflitto politico venga narrato come una guerra tra culture – i “buoni” che votano democratico e credono nella scienza, contro i “buzzurri” ignoranti e complottisti che votano Trump – non dovrebbe suonare nuovo. È abbastanza evidente che la cosiddetta comunità scientifica si sia schierata, senza ambiguità, nel primo dei due campi.

Tuttavia, trattandosi prima di tutto di uno scontro politico, lo schierarsi apertamente con una parte non è senza conseguenze – soprattutto quando a farlo sono istituzioni pubbliche. A quel punto, è l’istituzione stessa a diventare un bersaglio politico. Durante questo periodo, chi chiedeva che la scienza mantenesse neutralità in ambito politico veniva bollato come “pericoloso”. In Italia, chi poteva sostenere questa posizione se non lui?

 Il riferimento è all'appello di Marcia McNutt, per la neutralità della scienza in politica. "La scienza non è blu o rossa" non significava "La scienza si tira fuori", bensì "La scienza deve rimanere istituzionale". Ma in tempi in cui le istituzioni hanno perso la loro natura super partes un po' ovunque il discorso della Mutt poteva sembrare obsoleto. Eppure, resta forse l’unico argine credibile al discredito sistemico che oggi investe l’intero comparto scientifico pubblico. (Considerate che da anni la medicina istituzionale italiana è completamente in mano alla politica dei partiti e tiratene le debite conseguenze).

L´amara considerazione è che chi ha voluto questa guerra per la cultura "giusta" (che era in realtà per una parte politica) oggi la guerra l'ha anche persa, indipendentemente da quel che succederà alle prossime elezioni di midterm o nel 2028. Perché è difficile pensare che per il settore pubblico non valga quello che succede da sempre nel privato: per distruggere (tagliando, licenziando) servono giorni, per ricostruire servono anni e anni.

I big del tecnocapitalismo che hanno appoggiato Trump sono tutt'altro che alieni o contrari alla "scienza", figuriamoci: con la tecnologia sono entrati nel novero degli individui più ricchi del pianeta. Ma una cosa la sanno bene: quando il pubblico smantella per il privato si aprono grandi occasioni per accumulare ancora maggiori profitti.

 

mercoledì 23 aprile 2025

CRITICA, RAGIONE E RICORDO: UN REQUIEM PER IL GIORNALISMO

 

https://www.ilfattoquotidiano.it/2025/04/19/critica-della-ragione-pandemica-tinari-giornalismo/7957844/

L'agonia della democrazia italiana è alimentata da politiche emergenziali che si susseguono senza soluzione di continuità. Una politica emergenziale ha bisogno di un'apparato propagandistico che la maggioranza del giornalismo è sempre stata pronta a fornire. L'impressione è che neanche ci fosse bisogno di chiederglielo.

Lasciando da parte considerazioni usurate e facili da pervertire ("La storia serve a non ripetere gli stessi errori", "La qualità dell'informazione determina la qualità di una democrazia") vorrei solo ricordare che prima della crisi pandemica, ormai quasi dieci anni fa, un tweet di Roberto Burioni o uno di Walter Ricciardi bastava a fare una notizia, così come trenta anni fa un entomologo era diventato l'esperto di OGM per eccellenza. Più che nel cercare le fonti il giornalismo italiano ha una lunga storia nel crearsele su misura, conformi all'hype del momento. E' il meccanismo di creazione dei "competenti" nel sistema mediatico italiano - ed in automatico chi non si allinea all'hype, indipendentemente dalle sue qualifiche, per magia diventa "non competente". Le eccezioni sono rare.

In ragione di tutto ciò, dall'esterno, non stupise che il lavoro di Serena Tinari sui metodi del giornalismo di inchiesta in materia di sanità sia caduto nel nulla: semplicemente non funzionale alla missione della maggioranza del giornalismo che non è informare, ma orientare la pubblica opinione, esattamente come il fact-checking a cui lo stesso giornalismo si è rivolto. 

Di seguito riporto alcuni passi salienti del contributo di Serena Tinari a Critica della Ragione Pandemica, reperibile qui:

Un’ondata inarrestabile. Un esercito di reporter che alla velocità della luce si sono improvvisati esperti in epidemiologia delle malattie infettive, nello sviluppo, approvazione, efficacia e sicurezza di farmaci e vaccini. Tutti diventati esperti in statistica da un giorno all’altro, capaci di interpretare disegni e risultati di trial clinici, consapevoli della pervasività dei conflitti d’interesse nella medicina.
È possibile acquisire una specializzazione in un batter d’occhio, tanto più sotto la pressione di un clima generalizzato di panico? No. E tre anni di copertura mediatica lo dimostrano...

Partivamo da un presupposto: la copertura mediatica della medicina e della salute pubblica riproduce schemi sempre uguali. Ci sono le “news”, semplici copia-incolla dei comunicati stampa, notizie trionfali che celebrano presunti miracoli medici (che chi è del mestiere sa essere rari).
E poi ci sono i “giornalisti scientifici”, che traducono i comunicati di governi, aziende e università in linguaggio comprensibile alle masse. Manca cronicamente la prospettiva e il vaglio critico, soprattutto sull’attendibilità delle affermazioni degli “esperti”. Pensavamo: se trasmettiamo strumenti ai colleghi, lavoreranno meglio. Ci sbagliavamo. Anni di impegno non hanno prodotto risultati...

Possiamo trarre una conclusione: tre anni di crisi si sono trasformati nel requiem del giornalismo: la missione di raccontare una storia dopo averla verificata. Il dovere di confrontare fonti diverse. La necessità di porre domande scomode a chi governa e a chi dalla crisi trae vantaggio...

Il COVID è stato per lo più raccontato da cronisti politici e generalisti, che hanno continuato a “copiare e incollare” dichiarazioni di governo e industria.
Si è diffuso un tragico equivoco: i miei colleghi si sono sentiti investiti di ruoli che non spettano al giornalismo.
Come invocare maggiori restrizioni (“non servirebbe un lockdown in più?”), e farsi megafoni e stenografi di autorità, presunti esperti e aziende farmaceutiche...

L’era COVID ha lasciato il giornalismo con le ossa rotte: da Quarto Potere a porta-microfono.
I comunicati stampa delle aziende in prima pagina, gli amministratori delegati chiamati a pontificare su complesse politiche sanitarie. Verifica? Nessuna...

E mentre molti colleghi amplificavano le conferenze stampa del governo, i “fact-checker” si occupavano del resto.
Come se analisi, prove e verifiche non fossero il sale del giornalismo, a queste figure stravaganti è stato delegato il compito di certificare la Verità.
Nel culto dell’esperto in camice bianco, è nato il ministero orwelliano della “Scienza Vera”...

Un inquietante miscuglio di giornalisti scientifici ed esperti improvvisati, il mondo dei fact-checker pandemici ha visto la collaborazione di governi, ONG, star del giornalismo investigativo, servizi segreti e social media.
Infiniti sono i disastri causati da questa macchina della propaganda che ha creato, gestito e governato la crisi.
Appoggiati dai fact-checker, i giornalisti sono caduti in trappole orchestrate dagli uffici stampa di aziende e governi...

Il vecchio vizio di trovare formule accattivanti è stato fatale al giornalismo, e ha generato mostri: “no vax”, “no mask”, “negazionista”.
Neologismi che hanno diviso la società e sono stati affibbiati anche ad accademici di fama.
Persone riconosciute dalle agenzie regolatorie come danneggiate dai vaccini, etichettate come “no vax”...

Da missione di servizio pubblico, il giornalismo si è trasformato in una macchina infernale per manipolare le masse, alimentando l’odio verso il prossimo.
Tra le creature inquietanti del giornalismo pandemico ci sono i disobbedienti, a cui si possono togliere i diritti fondamentali.
Giornalismo come braccio armato del potere, che demonizza chi fa domande o dissente...

Giornalisti trasformati in censori, giudici, esecutori di sentenze.
Il giornalismo porta a casa da questa esperienza un corteo di errori. Alcuni clamorosi, molti imbarazzanti.
La crisi dei media ne esce aggravata, perché la sfiducia verso un giornalismo che tradisce la propria missione è inevitabile.



martedì 8 aprile 2025

I VALORI DELL'OCCIDENTE: LA LIBERTA' ACCADEMICA (?)

https://www.ilfattoquotidiano.it/2025/04/05/epidemiologo-ioannidis-effetti-lockdown-covid/7938854/

L'articolo di Gandini e Bartolini merita la lettura, ma più merita l'intervista di Ioannidis:


Riguardo il clima del dibattito scientifico nel 2020:

Era un ambiente altamente tossico, credo, per chiunque volesse contribuire al dibattito presentando dati e evidenze ragionando su cosa stessero a significare. Molti hanno preso posizioni molto forti, c'era una polarizzazione molto forte, molta partigianeria e la sensazione che fosse l'ideologia a mandare avanti il tutto. Non le migliori condizioni per l'attività scientifica, specialmente per chi non aveva ideologia politica e che non voleva soddisfare una o l'altra narrativa. Le minacce di morte erano frequenti... Credo che l'ambiente fosse così tossico che la maggioranza degli scienziati che avessero una qualche esperienza rilevante in campo epidemiologico si è autosilenziata. In molti mi hanno detto: John, è incredibile, non possiamo credere che stia accadendo, se tu sei attaccato in tal modo se tentassimo di dire qualcosa noi saremmo completamente annientati.

Vi consiglio caldamente la visione di tutto il video, ma vorrei espandere questo punto. Il "caso Ioannidis" ha riguardato anche il pubblico generale e la politica, ma l'aspetto per me più significativo è stata la reazione della "comunità scientifica" e delle sue estensioni comunicative. Se ne occupò un pezzo sul BMJ:

John Ioannidis è un professore della Stanford riconosciuto ampiamente come uno dei più importanti scienziati medici del nostro tempo; molti dei suoi studi e delle sue analisi sono tra i più citati in medicina e sanità pubblica. Tuttavia, nell’ultimo anno è diventato anche bersaglio di attacchi intensi, e spesso ad hominem, a causa dei suoi scritti, interviste e ricerche sul covid-19. Sebbene ci siano chiaramente critiche valide a uno studio sulla prevalenza del covid-19, di cui era coautore secondario, molti degli attacchi rivolti a Ioannidis hanno distorto la sua posizione complessiva e hanno anche affermato, senza alcuna prova, che la sua opinione fosse basata su simpatie politiche pro-Trump e/o su un conflitto di interessi economico personale.

Jeanne Lenzer e Shannon Brownlee hanno descritto gli attacchi a Ioannidis in un articolo d’opinione (e un box di approfondimento) su Scientific American, in cui riportano anche che un’indagine indipendente a Stanford non ha trovato alcuna prova a giustificazione di tali attacchi. Inoltre, hanno lanciato un appello ragionato alla comunità sanitaria affinché si evitasse di inquadrare le opinioni sul covid-19 in termini politici, sostenendo non solo che è di importanza cruciale affrontare questa pandemia da scienziati, ma anche celebrando un recente incontro alla Johns Hopkins in cui gruppi con visioni inizialmente molto diverse hanno riconosciuto i modi significativi in cui in realtà erano d’accordo, indicando così una strada promettente per il futuro. In sostanza, chiedevano che le divergenze venissero affrontate come colleghi, e non come inquisitori moralisti, per poter collaborare alla ricerca del miglior modo di proteggere la salute pubblica.

Lenzer e Brownlee, a loro volta, sono state attaccate personalmente dopo la pubblicazione del loro saggio, non solo sui social media, ma – cosa più rilevante – anche tramite comunicazioni inviate a organizzazioni di cui fanno parte e a riviste per cui avevano scritto in passato, con richieste affinché non fosse più permesso loro di pubblicare. Questo ha portato alla rimozione di Brownlee dal comitato consultivo della rivista Undark, nonché alla pubblicazione di emendamenti critici agli articoli originali sia su Undark che su Scientific American, i quali suggerivano che le due giornaliste avessero un conflitto di interesse non dichiarato, e le rappresentavano come se avessero fuorviato le redazioni. Queste accuse si basavano sul fatto che Ioannidis era stato coautore di un piccolo numero di articoli di revisione scritti da una o l’altra di loro. Lenzer e Brownlee contestano tale interpretazione generale e molte delle “correzioni” specifiche; affermano che la loro risposta non sia stata adeguatamente considerata da nessuna delle due pubblicazioni.

L’ironia evidente di tutta questa vicenda è sia sconvolgente che demoralizzante—Lenzer e Brownlee sono state attaccate per aver scritto un articolo che ci invitava a non attaccare qualcuno solo perché ha assunto una posizione impopolare.

La libertà accademica al suo meglio, vero? Notare le "comunicazioni alle istituzioni". La delazione/denuncia alle istituzioni in cui lavoravano i bersagli dell'indignazione proscienza è un qualcosa che è iniziato ai tempi del morbillo 2017 in Italia ed è lievitato a dismisura in tempi pandemici. Delazioni e denunce il più delle volte surrettizie, contestanti qualcosa di fin troppo simile a un attentato all'ordine morale dello Stato (fascismo) o al comune sentire del popolo (nazismo). Alla voce "quanto ne siamo usciti migliori".

Oggi a ragione si parla delle politiche di Trump nei confronti della ricerca pubblica e delle università USA come un attacco contro la libertà accademica. Ma chi lo lamenta molto probabilmente faceva parte della torma dei linciatori di Ioannidis, che oltreoceano erano una solida maggioranza nel mondo scientifico. Come ogni libertà, anche la libertà accademica non è mai quella degli altri.

domenica 6 aprile 2025

USA:DAZI SENZA PRECEDENTI? NON PROPRIO.

Confesso che non sono riuscito a rintracciare la fonte di partenza, che sarebbe stata un articolo di Chemical & Engeneering News (troppo vecchio), quindi vi tocca fidarvi della mia memoria, se vi pare: una venticinquina di anni fa ci fu il boom del biodiesel. Per chi non se lo ricorda, si trattava di carburante diesel ricavato da olii vegetali (di colza, soprattutto). E l'Europa, in particolare l'Italia, non se lo fece sfuggire. Tra l'altro c'era un cliente molto, molto importante: l'esercito degli Stati Uniti d'America. La chimica dietro la produzione era semplice: gli olii vegetali, con una frazione rilevante di trigliceridi (esteri di acidi grassi e glicerina) vengono mescolati con metanolo e una base (di solito NaOH) per ottenere l'esterificazione della frazione di acidi grassi e transesterificazione degli esteri già presenti (della glicerina, per esempio) per ottenere esteri metilici.

https://it.wikipedia.org/wiki/Produzione_del_biodiesel

Quindi c'era un grande compratore di biodiesel, gli USA, e una grande produzione europea. Una grande produzione europea il cui sottoprodotto era glicerina. La glicerina ha un mercato, costituito per esempio da chi produce saponi, e visto che era un sottoprodotto all'improvviso venne venduta (ed esportata) a prezzi ridicoli. La glicerina europea era sul punto di sterminare i produttori di glicerina americani e una amministrazione USA (non ricordo quale) mise un dazio sulla glicerina europea.

Più noti e documentati furono i dazi dell'amministrazione di George W. Bush (2002): un precedente non incoraggiante per l'attuale amministrazione USA, visto che furono revocati dopo un anno. Furono revocati perché gli effetti positivi non si erano visti ma quelli negativi sì: flessione del prodotto interno lordo e del tasso di occupazione. Ma ci sono esempi più recenti, costituiti dalla prima amministrazione Trump. Al riguardo la faccenda diventa fumosa. Se negli anni recenti nel discorso pubblico è stato arduo distinguere tra "scienza" e politica, non mi ricordo che tra economia e politica sia mai stata fatta una differenza. Quindi allo stato attuale, riguardo ai dazi della prima amministrazione Trump, il consenso è che abbiano avuto conseguenze negative in termini di inflazione e PIL o nessun effetto del tutto. Ma il fatto curioso è che l'amministrazione Biden mantenne buona parte di quei dazi, con una progressiva estensione di quelli contro la Cina.

Per quel che riguarda il settore chimico farmaceutico europeo ho già trattato il presente.
La mia vita lavorativa l'ho passata perlopiù in aziende che esportavano soprattutto in USA, quindi cambio con il Dollaro americano e tasse doganali (dazi) erano argomenti importanti e piuttosto sentiti. E sulla base di questa mia esperienza la mia opinione è che se il più grande mercato di riferimento del globo decide di ristrutturare le sue importazioni, beh, non è che ci si possa fare gran che. Ma in passato, appunto, non fu solo questione di dazi, affatto. La più grande ristrutturazione della filiera farmaceutica mondiale fu brutale e cominciò a fine 2005, quando il cambio arrivò a 1.30 dollari per euro: le grandi farmaceutiche globali nel giro di pochi mesi sganciarono la maggioranza dei partner europei (sostituendoli con asiatici che lavoravano in dollari). Questo per quello che riguarda i servizi. Sul fronte dei prodotti la situazione provocò un ulteriore shock alle aziende che si ritrovarono ad abbassare i prezzi in EUR o a firmare ordini o contratti in dollari, sacrificando i ricavi per mantenere quote di mercato. E mi immagino che per gli altri settori che esportavano negli USA le cose non fossero molto diverse. Il problema principale era costituito dalla mancanza di un vero mercato di riferimento alternativo: l'Europa non poteva assorbire le quote dell'export destinate agli USA, non per dimensione (che c'era) ma per politiche di repressione della spesa interna. Fu nel 2009, mi pare, che sentii un executive di una grande azienda dire che l'Europa per i farmaci non era più un mercato interessante.

Quindi vorrei provare, da non economista, a fare una constatazione: non c'è molta differenza tra un dazio del 25% a parità di cambio e un cambio di 1.3 dollari per euro (2005) in assenza di dazi. Ed in entrambi i casi sono dolori.

E allora, al di là delle vuote propagande? Da questo lato dell'oceano si può solo sperare che succeda come successe ai tempi di George W. Bush e che tra un anno o prima tutto sia revocato. Ma potrebbe non essere questo il caso. 

ADDENDUM: 

Nel "terribile" mercoledì in cui i dazi vngono applicati la confusione è massima sotto il cielo.

https://www.bloomberg.com/news/articles/2025-04-08/trump-dismisses-last-gasp-eu-push-to-stop-tariffs-kicking-in

 
ma  Milano Finanza fa sapere che:
 
Non sono colpite dai nuovi dazi reciproci le seguenti categorie merceologiche: il settore automobilistico e le loro componenti su cui già si applicano le nuove aliquote su acciaio e alluminio; prodotti farmaceutici; rame; semiconduttori; componenti e ricambi di settori strategici statunitensi (aerospaziale, difesa) che rientrano in specifiche esenzioni; alcune materie prime non disponibili in quantità sufficiente sul mercato interno Usa, come determinati minerali e terre rare; legname 

Buon lavoro giornalistico, infatti è quel che dice l'ultimo fact sheet della Casa Bianca (o il penultimo, o il terzultimo, quando leggete). Quindi il farma è escluso, anche se qualcuno fa osservare che i codici doganali colpiti non sono ancora stati specificati. Ma la rincorsa dell´euro sul dollaro, cominciata a febbraio, ha avuto nuovo impulso dalla faccenda dei dazi. E esenzioni o no se lo scivolamento del dollaro continua gli scenari sono quelli di cui ho già parlato. Nel frattempo qualcuno da fuori inizia a piazzare nuovi investimenti negli USA, just in case, come si dice.

https://www.indianpharmapost.com/news/sumitomo-chemical-establishes-a-cro-for-oligonucleotide-cdmo-business-in-us-16992

 

 

mercoledì 2 aprile 2025

A CHI CONVIENE RIARMARE L'EUROPA?

 Troppo facile, a loro:

https://www.bloomberg.com/news/articles/2025-04-01/surging-defense-stocks-led-europe-s-quarter-of-us-outperformance

 

Un quadrimestre storico che ha visto l'affettuoso abbraccio tra la "sinistra" italiana, quella voluta in piazza a Roma da Michele Serra, e l'industria bellica tedesca. Un nuovo commovente capitolo dell' Asse Roma-Berlino.

CHI SONO? UNO COME TANTI (O POCHI)

Con una laurea in Chimica Industriale (ordinamento ANTICO, come sottolineava un mio collega più giovane) mi sono ritrovato a lavorare in ...