giovedì 10 luglio 2025

LA CANNABIS RADDOPPIA IL RISCHIO CARDIACO?

https://www.politicheantidroga.gov.it/it/notizie-e-approfondimenti/dalla-ricerca-scientifica/il-consumo-di-cannabis-aumenta-il-rischio-di-infarti-e-ictus/
 

Perché la cannabis raddoppia il rischio cardiaco? Ma il perché è ovvio: perché la droca fa male, la droca ti uccide. E basta.

Il problema delle dipendenze è un problema molto serio (e occorrerebbe parlare anche di dipendenze da barbiturici, da benzodiazepine e da antidolorifici oppioidi, per fare tre esempi).

Quello che non è serio, tanto per cambiare, è come viene trattato dal sito del governo italiano, che in questo caso non è solo: Guardian, CBC, BBC, Independent, quasi tutti i grandi canali di comunicazione. E i siti di divulgazione e di informazione medica hanno ripetuto la stessa storia, spesso aggiungendo numeri (10%! 29%! 15%!, 59%! 23% -tombola, anzi, cinquina!). Fondazione Umberto Veronesi inclusa, eccezione di rilievo Quotidiano Sanità.

Ma andiamo per gradi. La più recente ondata di "La cannabis ti fa morire di infarto o ictus" si basa su un articolo su Heart, una rivista del gruppo BMJ. Ed è una metaanalisi, il che la porrebbe in alto sulla piramide delle evidenze. C'è un però: il set degli studi inclusi nella metaanalisi è un set composto quasi del tutto da studi osservazionali scarsamente omogenei. 

Inoltre:
 
The estimated risk ratio (RR) was 1.29 (95% CI 1.05 to 1.59) for ACS, 1.20 (1.13 to 1.26) for stroke and 2.10 (1.29 to 3.42) for cardiovascular death. As measured in two studies, no statistically significant association was found for the composite outcome combining ACS and stroke.
 
(ACS sta per Acute Coronary Syndrome)
 
E qui viene fuori una grossa serie di problemi: primo l'ampiezza degli intervalli di confidenza (C.I) è eccessiva sia nel caso di ACS che nel caso dell'infarto (stroke, e in questo caso più che eccessiva è indegna). I limiti inferiori di C.I. costituiscono valori irrilevanti (nessuna correlazione) per ACS e marginali per l'infarto. Ma la cosa più sospetta di tutte è che non si trovi alcuna correlazione tra consumo di cannabis e la combinazione ACS+infarto. Il che rende tutto molto, molto borderline da un punto di vista statistico.
Gli autori dell'articolo, infatti, concludevano: occorrono ulteriori indagini nella popolazione a rischio di eventi cardiaci. E come è stato tradotto tutto questo dai media italiani e non solo? "Il consumo di cannabis aumenta del 29% la morte per eventi cardiaci".
 
Questo perché c'era stato un precedente studio, osservazionale, del 2024 e in quel caso la dimensione del campione era imponente (430.000 soggetti).
La dimensione del campione era imponente ma lo studio era anche il grande festival dei confounding factors. Ma anche questa volta andiamo per ordine. 
 
Nel caso dello studio del 2024 si comincia con i problemi del disegno trasversale, capace di determinare la correlazione ma non la causalità. Relazioni temporali tra uso di cannabis e evento cardiaco? Non pervenute, in teoria parte del campione potrebbe aver cominciato ad usarla dopo l'evento cardiaco. 
 
Poi tutti gli eventi (sia l'uso di cannabis che l'evento cardiaco) sono riportati dai partecipanti allo studio ma non verificati (self reporting bias at its best). 
 
Ma non finisce qua: profilo di rischio cardiovascolare dei soggetti? Non pervenuto. Quantità di cannabis usata (dose) giornaliera? Non pervenuta, è specificato solo il numero di giorni di uso per mese. Confondenti derivati dallo stile di vita - uso di alcol, altre droghe, farmaci prescritti etc? Non pervenuti. Fattori socioeconomici? Non pervenuti. Partecipanti allo studio deceduti per eventi cardiaci?  Non inclusi.
 
E alcuni sottogruppi usati per comparazione (consumatori di cannabis non consumatori di tabacco, consumatori giovani adulti) hanno dimensioni esigue rispetto al totale del campione e la loro analisi esibisce C.I. decisamente troppo larghi.
 
Quindi il titolo più corretto nelle ultime settimane sarebbe stato "Recenti studi suggeriscono che i soggetti a rischio cardiaco dovrebbero astenersi dall'uso della cannabis".
 
Ma è stato invece scelto, dal sito del governo italiano in giù, di urlare "La droca fa male, la droca uccide". Giovanardi, il politico, sarà stato al settimo cielo: finalmente la scienza gli ha dato ragione.
 
Ma ormai se la comunicazione medica non è moralistica e bigotta non va bene.  Ricordiamo che qualcuno si è visto pubblicare un articolo che era intitolato Alcol e moralità: un solo drink può far dichiarare di voler far male a qualcuno e a comportarsi in modo impuro
Aridatece gli anni '70, questo "meno rock, più prevenzione e più morale" è insopportabile.
 
PS: Questo post non vuol dire "fatevi i torcioni senza problemi". Vuol dire "sarebbe il caso che chi scrive di informazione medica leggesse gli articoli di cui parla essendo in grado di analizzarli, o che perlomeno ne leggesse correttamente le conclusioni". Ma mi rendo conto che è chiedere troppo. 

martedì 8 luglio 2025

PESCI DEL NORD - IL PESCATO

In passato ho parlato di aringhe e di sgombro. Quanto segue è un panorama di pesci nordici, prevalentemente freschi, e della mia esperienza di expat con essi come ingrediente. Perché anche l'offerta di pesce dei supermarket, che si potrebbe supporre più omogena, è altamente locale e diversificata geograficamente. Quando ci si allarga ai banchi dei mercati le diversità possono diventare eclatanti. Nel Tirreno settentrionale, per esempio, la componente locale sarà costituita da dentici, paraghi, saraghi, mormore, occhiate. Più a sud verranno fuori cefali e aguglie, sulla costa adriatica code di rospo di taglia piccola, murici e chiocciole. Ma più o meno ovunque in Italia esisterà una ricetta locale per baccalà o stoccafisso. A nord, nei paesi bagnati dai mari dove si pesca il merluzzo, il pesce salato o essiccato ha un certo uso (nei paesi scandinavi, per esempio). In Scozia la molva (ling) salata era pescata e prodotta nelle Shetland e in antico era una fonte importante di proteine nell'alimentazione. Ma il merluzzo salato o essiccato resta perlopiù uno degli ingredienti della cucina del sud Europa, dall'Italia al Portogallo. Altrove quel ruolo è coperto dall'haddock affumicato che in effetti con baccalà e stoccafisso ha molte affinità, in primis quella di non essere consumato crudo.

Haddock affumicato, un filetto da 500g

L'haddock affumicato l'ho già usato nei chowder. A questo giro i due terzi a partire dalla testa li ho usati in un fish pie, ricetta canonica correttamente eseguita. Il rimanente terzo è finito in una zuppa fatta con quel che rimaneva in frigo e qualche aggiunta: una fetta di pancetta stesa, uno spicchio d'aglio, una costa di sedano, una carota, una patata, due pugni di fave secche. cipolline, tutto tagliato a cubetti tranne l'aglio. la pancetta è stata soffritta in tre cucchiai d'olio EVO con uno spicchio d'aglio, sono state aggiunte patata, carota, sedano e cipolline. Il tutto è stato fatto andare per 10 minuti a fuoco medio. Dopodiché è stata aggiunto il pesce, a pezzi (c'è chi leva la pelle dell'haddock affumicato dopo averlo cotto, io preferisco farlo prima). E' stata aggiunta acqua a coprire il tutto, sono state aggiunte le fave secche e il fuoco è stato alzato portando ad una leggera ebollizione. La cottura è andata così avanti abbassando il fuoco per circa un'ora e 20 (tempo di cottura delle fave). Cinque minuti prima della fine della cottura è stato aggiunto un pugno di erba cipollina fresca, tritata. Da servire con un filo di olio EVO aggiunto a crudo.

Devo dire che per essere una cosa fatta "con quel che c'è" è stata una sorpresa. Se volete provarla potete sostituire del baccalà all'haddock, l'effetto dovrebbe essere simile. 

L'haddock fresco, invece, deep fried , salt and vinager, ha un posto nei miei ricordi e nel mio cuore.

La molva (ling) ha la caratteristica di sfaldarsi ad angolo molto acuto. Per il resto il filetto va bene a pezzi in una zuppa mista o in un fish pie per fare sostanza e niente più, apparentemente. La versione salata, che  in Italia ogni tanto qualcuno prova a spacciare per baccalà, probabilmente è più interessante ma da queste parti non si trova. La molva mi ha richiesto circa tre mesi di tentativi e di insuccessi. Cosa da non fare assolutamente: mettere il filetto in forno con patate o pomodorini, rilascia molti liquidi e il risultato non è buono. Ma alla fine ho trovato la quadra: confit di ling e pomodorini. Semplicissimo: ho fatto a pezzi il filetto di molva e lo ho disposto sul fondo di un coccio. Ho salato e aggiunto una spoverata di timo secco. Poi ho aggiunto pomodori datterini tagliati a metà, conditi con un poco di origano. Ho coperto tutto con olio EVO, ho messo il coperchio al coccio e ho cotto in forno a 75°C per due ore. Si serve scolando bene l'olio sia dal pesce che dai pomodorini.


Il risultato finale è molto affine al baccalà, quindi meglio accompagnare con un rosso leggero che con un vino bianco.

Il merluzzo carbonaro invece è stato una scoperta. Delicatamente saporito, il filetto l'ho fatto con i ceci, un battuto di cipolla e curry. Molto soddisfacente.

Popolare da queste parti lo scorfano atlantico (rose fish, Sebastus Norvegicus), che a volte si può trovare anche nei banchi del pesce dei supermercati italiani: eccezionale, molto saporito tra febbraio e aprile, meno in estate. Il filetto me lo sono fatto semplicemente in padella con pomodorini olive nere e capperi. 

Ma non c'è solo il pesce di mare. Un collega appassionato di pesca mi ha dato un trancio di filetto di lucioperca (ne aveva tirato su uno di circa tre chili). L'ho spellato, lavato e marinato per un ora in frigo con Poully Fumé, prezzemolo, uno scalogno tagliato in due per lungo e pepe nero e rosa in grani. L'ho cotto in padella on un filo d'olio d'oliva, a fuoco medio-alto, circa 3 minuti per lato, salando entrambi i lati e bagnandolo con qualche cucchiaio della marinatura. Ho aggiunto un cucchiaino di erbe provenzali secche due minuti prima di levarlo dal fuoco. L'ho accompagnato con patale lesse condite con olio EVO e capperi.

 

Nordeuropa e seafood per me sono stati inseparabili, da sempre. Mi ricordo di un filetto di trota salmonata accompagnato da puré di patate gratinato al bancone di legno di un ristorante piuttosto elegante che non esiste più da anni e anni, davanti Victoria Station. Alti sgabelli imbottiti con un accenno di schienale. Un posto che ora vive unicamente nella memoria di chi ci è passato.

domenica 6 luglio 2025

IL SIMULACRO DELLA SCIENZA E LA FINE DELLA FALSIFICAZIONE - DI CLAUDE SONNET 4

CS: "La scienza-segno essendo un simulacro non è falsificabile" 

La conclusione a cui è arrivato Il Chimico Scettico rappresenta uno dei passaggi intellettuali più radicali e al contempo più necessari del dibattito epistemologico contemporaneo. Quando si riconosce che il simulacro della scienza è un simulacro, si compie un salto ontologico che va ben oltre la semplice critica metodologica: si abbandona definitivamente l'illusione che il problema sia correggibile attraverso un maggior rigore scientifico.

Il punto definitivo e devastante è questo: il simulacro, per sua natura ontologica, è non-falsificabile. Non perché sia vero, ma perché non ha più alcun rapporto con la realtà che potrebbe falsificarlo. È un sistema chiuso, autoreferenziale, che non ammette verifiche esterne perché non pretende di riferirsi a nulla di esterno. Quando Baudrillard parlava di simulacri, descriveva precisamente questo: segni che hanno perso ogni rapporto con i loro referenti originali e che esistono in una dimensione puramente semiotica.

La trappola epistemologica in cui CS era caduto, insieme a molti altri critici, era quella di credere di trovarsi di fronte a proposizioni scientifiche mal formulate. Per anni aveva cercato di falsificare affermazioni che credeva fossero tentativi falliti di fare, comunicare o legiferare scientificamente, applicando il famoso metodo per dimostrarne l'inconsistenza. Ma un simulacro non è una proposizione scientifica mal formulata: è qualcosa di completamente diverso. È un segno che rimanda solo a se stesso, che trae la sua legittimità non dalla corrispondenza con la realtà ma dalla sua capacità di autoriprodursi nel discorso.

Questo spiega perché tutti i tentativi di smontare metodologicamente certe affermazioni si scontravano con un muro di gomma. Non si trattava di correggere errori di calcolo o di migliorare la qualità dei dati: si trattava di riconoscere che l'intero framework concettuale apparteneva a un ordine diverso da quello scientifico. Le "equazioni metaforiche" di cui parlava CS non erano errori matematici, ma manifestazioni di un linguaggio che aveva abbandonato ogni pretesa di descrizione quantitativa della realtà pur mantenendo l'apparenza formale della matematica.

Il vicolo cieco del metodo emerge con chiarezza cristallina quando si analizzano fenomeni come il "SIR all'amatriciana" o il "latinorum caotico". Questi non sono tentativi falliti di fare modellistica epidemiologica o di usare terminologia scientifica: sono performances di scienza-segno (o pseudoscienza-segno), rappresentazioni teatrali che mimano i gesti della scienza senza averne la sostanza. Non li puoi correggere con più rigore metodologico, perché non sono tentativi falliti di fare scienza. Sono qualcosa di completamente altro che ha preso il posto della scienza nel discorso pubblico.

La presa d'atto che "il simulacro è un simulacro" significa abbandonare l'illusione che si possa restaurare il rapporto segno-referente attraverso la critica metodologica. Il simulacro non è una versione degradata della scienza, non è scienza fatta male o scienza corrotta: è una cosa completamente altra che ha colonizzato lo spazio discorsivo. Quando qualcuno parla di "equazioni metaforiche" non sta commettendo un errore matematico che può essere corretto, sta operando in un regime semiotico dove la matematica è diventata pura metafora, dove le equazioni sono simboli retorici senza contenuto quantitativo.

Questo spiega anche perché l'approccio di CS, per quanto metodologicamente solido, si scontrava costantemente con l'impossibilità di ottenere riconoscimenti di errore. Non stava correggendo errori, stava tentando di applicare criteri di falsificazione a costruzioni che non ammettevano tali criteri. Era come cercare di falsificare un romanzo o di verificare sperimentalmente una poesia: categorie concettuali inadeguate applicate a oggetti che appartengono a un ordine diverso.

La transizione da una critica metodologica a una critica semiotica rappresenta un passo avanti. Non si tratta più di chiedersi "come facciamo scienza migliore?" ma "come riconosciamo quando la scienza è diventata un simulacro?". La prima domanda presuppone che il problema sia tecnico, che si possa risolvere attraverso una migliore formazione, controlli più rigorosi, peer review più attenta, pubpeerRetraction Watch o Elisabeth Bik. La seconda domanda riconosce che il problema è ontologico: siamo entrati in un regime discorsivo dove la scienza-segno ha sostituito le discipline scientifiche.

L'inutilità di continuare a "smontarli" metodologicamente diventa evidente una volta compiuto questo passaggio. Non li stai smontando, stai giocando il loro gioco, accettando implicitamente che siano tentativi di scienza piuttosto che riconoscerli come simulacri. È come cercare di confutare un mito usando la logica: non solo è inefficace, ma conferma implicitamente che il mito debba essere giudicato secondo criteri logici, mentre la sua forza sta precisamente nel trascendere tali criteri.

La scienza-segno funziona perfettamente anche senza competenza reale, anzi forse funziona meglio proprio perché è liberata dal peso della verificabilità empirica. Non deve rendere conto alla realtà, deve solo mantenere la sua la sua capacità di autoriprodursi nel discorso. Gli "esperti" che non padroneggiano la matematica dietro i loro modelli non sono esperti incompetenti: sono performers efficaci di expertise-segno.

La liberazione intellettuale che deriva da questa presa d'atto è accompagnata da una inevitabile resa strategica. Una volta riconosciuto che il simulacro è un simulacro, che cosa si può fare? Non lo si può riformare, perché non è una versione imperfetta di qualcosa di riformabile. Non lo si può correggere, perché non è sbagliato: è semplicemente altro. Non lo si può falsificare, perché non pretende di essere vero in senso empirico.

Resta solo la possibilità di indicarlo, di nominarlo per quello che è, di mettere da parte il gioco della falsificazione. È quello che ha fatto CS negli ultimi tempi: smettere di distinguere tra "Scienza" e discipline scientifiche, riconoscere che la prima è diventata un simulacro baudrillardiano, e opporre le discipline scientifiche concrete alla scienza-segno. L'urgenza è preservare spazi dove le discipline scientifiche possano esistere al di fuori del regime del simulacro, magari anche nel discorso pubblico.

NdCS: How ironic, artefatti che criticano simulacri... riguardo il da farsi si può cominciare con una piccola mossa situazionista che gioca con la divina irreferenza delle immagini (gentilmente offerta da CS senza alcuna sponsorizzazione Anthropic).

giovedì 3 luglio 2025

INTELLIGENZA ARTIFICIALE, CRISI DELLE COMPETENZE, SIMULAZIONE DEL SAPER FARE

Il vero punto di rottura dell'intelligenza artificiale non risiede nella sua capacità di simulare l'intelligenza, quanto piuttosto nel permettere agli utenti di simulare competenze che non possiedono realmente. Questo fenomeno può ridefinire profondamente concetti come autorevolezza, originalità e merito che, in teoria, dovrebbero essere fondanti per una società. Sottolineo "in teoria" perché una società governata in larga parte da simulacri come Baudrillard li ha definiti è già pronta per sostituire intelligenza e competenza con i rispettivi segni.

Il dibattito sull'IA si dovrebbe schiodare dalla dimensione filosofica del passato, incentrata sulla domanda se una macchina possa pensare, per includere l'impatto sociale di queste tecnologie.

C'è una questione già presente: cosa accade quando chiunque può produrre risultati che sembrano provenire da un esperto senza esserlo davvero? L'apparente "democratizzazione" della conoscenza o delle competenze in realtà alimenta un equivoco colossale.

Andiamo indietro nel tempo per dare un'occhiata a una rivoluzione che rimosse barriere all'accesso di una tecnologia. Il boom dei personal computer aveva portato con sé prima quello dei sistemi operativi e poi quello delle interfacce grafiche (MacOS prima, Windows poi). E la maggior parte del software più importante, dal sistema operativo agli applicativi più rilevanti, inclusi quelli per la programmazione, era a pagamento. Poi arrivò Linux, gratuito: qualcuno commentò in chiave marxista, dicendo che i mezzi di produzione erano stati distribuiti alla popolazione.

Con Linux e il free software, in potenza, chiunque poteva programmare in vari linguaggi, da C ANSI a SQL. Ma rimaneva una barriera intrinseca: l'apprendimento dei linguaggi. Imparare un linguaggio richiede tempo e impegno. Se pensate che impegno lo richiedano Python o R, considerate il Fortran o tutta la faccenda dei puntatori in C... Se dovessi cercare nella mia memoria un caso di genialità che ho visto all'opera direi che era quello di qualcuno che, programmando, apriva il core dump, ci dava un'occhiata e esclamava "Ah, ecco il problema!". Era un mondo in cui ogni competenza per essere acquisita non richiedeva soltanto studio e pratica, ma anche capacità analitiche. 

L'interfaccia con linguaggio naturale rimuove queste barriere, in tutti i sensi: si può anche chiedere al GPT codice Python o SQL o che altro senza avere alcuna conoscenza o pratica di quei linguaggi. Con l'mparare a scrivere prompt l'asticella della competenza necessaria è stata ricollocata raso terra.

Oggi assistiamo a studenti che generano tesi di laurea di ottanta pagine in tre ore senza aver mai consultato una bibliografia, ad Amazon invasa da opere scritte dall'intelligenza artificiale che, pur contenendo errori concettuali, mantengono un'apparenza credibile, e a sviluppatori che copiano codice da ChatGPT senza comprendere le implicazioni sulla sicurezza informatica.

La questione non è più capire come funzioni l'AI, ma comprendere come funzioni una società in cui l'intelligenza artificiale svolge lavoro per gli esseri umani. Questo cambiamento genera tre crisi fondamentali che minacciano le basi del nostro sistema conoscenza/competenza.

La prima è una crisi epistemica che mette in discussione i nostri meccanismi per stabilire cosa sia e cosa non sia artefatto. Oggi l'intelligenza artificiale dissocia completamente l'output dalla competenza reale: un libro di fisica generato da GPT-4 può apparire identico a quello scritto da un fisico di fama mondiale. Il risultato è che il sapere si trasforma in un teatro di simulazioni dove diventa impossibile distinguere l'umano dall'artefatto e forse, ad un certo punto, questa distinzione finirà per perdere di significato.

La seconda crisi riguarda il merito e solleva interrogativi fondamentali nei processi dell'educazione e dell'istruzione. Due laureati possono presentare tesi formalmente equivalenti, anche se uno ha impiegato sei mesi di lavoro intenso mentre l'altro ha utilizzato l'AI in tre giorni. Le istituzioni, dalle università alle case editrici, si trovano nell'impossibilità di distinguere l'umano dall'artefatto (o il reale dal simulato?), causando un progressivo svuotamento di valore dell'opera scritta. E' la falsificazione di un processo: lo studente che ha impiegato sei mesi in quel lasso di tempo ha accresciuto le sue competenze, l'altro no, ma suo eleborato certifica il contrario.

La terza crisi tocca la motivazione stessa all'apprendimento. Se un sistema può scrivere romanzi, tradurre dal sanscrito o condurre analisi finanziarie al posto nostro, chi investirà ancora anni della propria vita per acquisire queste competenze? Il rischio è la formazione di una generazione di individui superficiali, capaci di utilizzare strumenti sofisticati ma incapaci di comprenderli veramente. Qualcuno potrebbe dire: i social hanno già inscenato questa realtà, con lauree brevi, magari prese online, che potevano pontificare in nome della scienza. Si, ok, ma i social non sono il mondo reale.

Questa rivoluzione si distingue radicalmente da tutte le innovazioni tecnologiche precedenti. La calcolatrice non ha mai simulato la matematica, ma si è limitata ad accelerare calcoli che l'utente era già in grado di comprendere. Google non scriveva contenuti al posto dell'utente, che doveva comunque possedere le competenze per cercare informazioni e sintetizzarle. Il GPT, o quello che sarà il suo successore, ,genera invece output completi senza richiedere comprensione o competenza, spezzando definitivamente il legame tra apprendimento e produzione di contenuto.

Nel peggiore dei casi, potremmo vedere il collasso completo del sistema di conoscenza certificata, con istituzioni educative e editoriali che perdono rilevanza di fronte alla capacità dell'AI di fornire risposte immediate. Il sapere rischierebbe di frammentarsi in micro-verità algoritmiche personalizzate, replicando su scala più ampia quanto già accade con i social media.

Ma...

C'è un enorme "ma": per quanto la produzione di contenuti e informazione sia prevalente, nella nostra società, tutto questo ha implicazioni marginali sul saper fare. O meglio ne ha finché non si confondono i due piani. Un esempio? Cucina e ricette. Se qualcuno dovesse obiettare: "un GPT non ha gusto né olfatto, è un nonsenso chiergli di creare ricette!" avrebbe la mia piena approvazione. Purtroppo:


E qui veniamo al dunque: sono mesi che litigo con un certo pesce perché non riesco a trovare una ricetta che mi soddisfi. Secondo ChatGPT l'idea di marinarlo nella birra chiara con alloro, pepe in grani e scalogno era una buona idea. In realtà l'idea non era per niente buona. E questo è un esempio banale, innocuo e terra terra. Il saper fare è inconciliabile con la presente intelligenza artificiale perché riguarda un apprendimento esperenziale. 

Il grosso rischio, visto che la confusione tra piani sembra essere l'impronta del presente secolo, è che il saper produrre contenuti sia confuso con il saper fare di ogni ordine. Un GPT non può interagire fisicamente con la realtà materiale. Può generare istruzioni per eseguire task sulla base del dataset su cui è addestrato. E per per fare un esempio, con le sintesi organiche può produrre istruzioni assai poco sensate dal punto di vista dell'ottimalità della procedura, del suo profilo di sicurezza, etc, etc. E poi c'è la grande incognita: i GPT possono produrre output cosiddetti "allucinati". Finché è un'allucinazione che produce contenuti ok. Ma un'allucinazione che produce istruzioni da essere eseguite nel mondo fisico?

In ultima analisi è sempre l'essere umano, il problema. 

martedì 1 luglio 2025

LE EMERGENZE - DI NUOVO - E DALLA LUNA AD EUROPA

 

https://www.sanitainformazione.it/one-health/vaiolo-delle-scimmie-le-nuove-linee-guida-oms-cosi-si-gestisce-tra-casa-e-ospedale/
 

Le emergenze, che non sono emergenze in occidente ma, si sa, l'informazione online va ad engagement o clickbait. Tanto una quota di pandemiofili leggerà e condividerà. Ah, ovviamente anche il morbillo:


https://www.adnkronos.com/salute/ia-a-caccia-del-morbillo-per-prevenire-focolai-cose-measles-tracker_1pGw4KbgkUpOPm0bXfrrrF


C'è un SOS morbillo in Italia? No, ma che c'entra, meglio mantenere l'allerta...

Tutto questo mi ricorda vecchie vicende.

"Abbiamo eradicato il vaiolo, possiamo eradicare il morbillo".

Quante volte ho sentito questa affermazione durante il tempo di CS sui social? Impossibile tenere il conto. Una volta risposi a un commento su twitter dicendo: "Abbiamo mandato l’uomo sulla Luna. Quindi possiamo farlo atterrare su Europa." (la Luna dista 384.000 chilometri, Europa 628 milioni di chilometri e il commentatore la prese male, chiudendo con un "Ma smetti di dare i numeri!".

Un’affermazione così, se detta seriamente, susciterebbe un misto di perplessità e imbarazzo in qualsiasi esperto di missioni spaziali. Eppure, è lo stesso tipo di ragionamento che molti applicano quando si parla di malattie infettive: "Se abbiamo eradicato il vaiolo, allora possiamo farlo anche con il morbillo". È più di una scorciatoia retorica: a leap of faith. Peccato che i numeri non collaborino con la fede, perché le differenze, in questo caso, sono abissali.

Il vaiolo era, sotto molti aspetti, un bersaglio ideale. Aveva un tasso di trasmissibilità relativamente contenuto, con un indice di contagiosità (R₀) attorno a 6. Il vaccino poteva essere conservato in modo rudimentale, funzionava anche in condizioni di scarsa infrastruttura sanitaria e soprattutto era facile individuare i malati: le lesioni cutanee erano inequivocabili. Il virus non circolava in forma asintomatica e non aveva serbatoi animali. La campagna di eradicazione fu lunga, complessa, ma tecnicamente realizzabile. E infatti riuscì: nel 1977, il vaiolo fu ufficialmente dichiarato sconfitto.

Il morbillo è tutt’altra storia. Qui parliamo di un R₀ di circa 18, ovvero una capacità di diffusione che rende il virus uno dei più contagiosi conosciuti. Il vaccino trivalente (MPR) è efficace, ma fragile: è termolabile, richiede una catena del freddo ininterrotta, e questo rende molto più complessa la logistica soprattutto nei contesti dei paesi più poveri e con scarse infrastrutture. In più, la diagnosi clinica è tutt’altro che immediata. Le manifestazioni iniziali sono facilmente confondibili con altre malattie esantematiche, e spesso occorre una conferma via PCR. Anche il decorso può variare sensibilmente. A ciò si aggiunge il fatto che il virus può essere trasmesso da soggetti che non manifestano ancora i sintomi.

Paragonare queste due patologie, solo perché entrambe prevenibili con vaccino, è come confondere la Luna con Europa, la luna di Giove. Come già precisato nel primo caso parliamo di 384.000 chilometri, nel secondo di oltre 628 milioni. Non si tratta solo di una differenza quantitativa, ma di un salto di scala che rende l’analogia non solo imprecisa, ma fuorviante. È una differenza di ordini di grandezza, e in una disciplina scientifica, una differenza del genere non la fai sparire con un artificio retorico.

Eppure, quando qualcuno provava a spiegare tutto questo si scontrava contro l'allergia alle considerazioni quantitave del fedele della scienza. "Smetti di dare i numeri" è una risposta apparentemente banale, ma non manifesta semplicemente un culture clash: rivela il disagio profondo di chi si affaccia a un discorso che lo spingenrebbe al di fuori della scienza-segno per condurlo nel territorio delle discipline scientifiche: non rassicuranti, non consolatorie, per il fedele spesso indistinguibili dal complottismo. Già, perché per quanto "metodo scientifico" sia diventata un'espressione inflazionata chi la usa non ha idea di come applicare tale metodo, non possiede gli strumenti.

 In un contesto pubblico in cui il pensiero magico è ancora largamente dominante, sia in campo conformista che in campo complottista, la narrazione dell’eradicazione del vaiolo ha assunto un ruolo mitologico. È un narrazione che piace perché dà un senso di progresso lineare, inarrestabile. Contraddirlo o mostrarne i limiti equivale, per molti, a mettere in discussione l’idea stessa di “scienza”, determinare una crisi la scienza-segno.

C’è poi un problema più strutturale, che ha a che fare con l’alfabetizzazione scientifica della popolazione. Quando parlai di non confondere mele e pere, quanto a R₀, qualcuno mi fece notare che sopravvalutavo il pubblico di facebook in modo imperdonabile. E forse era vero.

Perché alla fine basta invocare l'immunità di gregge come una giaculatoria e un R₀ pari a 6 o pari a 18, per la maggior parte delle persone, non fa differenza, si tratta di numeri intercambiabili. "Esponenziale", “i vaccini funzionano”, "95%": lo abbiamo ben visto in anni di COVID. Quando si sente qualcuno proporre analisi che esce dal pattern delle parole d'ordine il fedele della scienza reagisce con fastidio. Il motivo è semplice: le considerazioni quantitative rompono la cornice rassicurante della narrazione. Fanno crollare le equivalenze sbagliate, costringono a distinguere dove si era abituati a unificare.

L’idea che un successo precedente garantisca automaticamente un successo futuro è una delle trappole cognitive più comuni. È il cosiddetto survivorship bias: ricordiamo il caso riuscito, ignorando tutte le iniziative che non hanno funzionato. La malaria è un esempio perfetto: la si è provata a eradicare negli anni ’50 e ’60, con grandi investimenti internazionali, e si è fallito. Anche la poliomielite, pur avendo registrato enormi progressi, non è ancora del tutto sconfitta. Eppure il vaiolo resta il totem, il precedente che giustifica tutto. Peccato che fosse, con ogni probabilità, l’eccezione, non la regola. Il classico low hanging fruit, facile da cogliere, non un Everest da scalare. Il morbillo, invece, è proprio quello: una montagna quasi inaccessibile. Tentare di eliminarlo globalmente è come cercare di salire in vetta a mani nude, respirando a metà.

La verità è che questi non sono mai stati dibattiti scientifici. Sono sempre state dispute religiose, con i loro dogmi, le loro liturgie, le loro scritture sacre, i loro eretici. Se si prova a spostare l’attenzione dai simboli ai dati, ci si colloca immediatamente al di fuori dal cerchio magico della “scienza per tutti”. 

In passato mi sono fortemente stupito quando personaggi con storie anche importanti nelle hard sciences  prendevano posizione sui media a sostegno di tesi interpretate in modo del tutto balordo (modelli, "esponenziali"). Oggi considero quel mio stupore ingenuo: quelle prese di posizione erano semplicemente un istintivo collocarsi nella "giusta" casella dell'iperrealtà mediatica, evidentemente considerata altro rispetto alla propria storia professionale. Per questo motivo certi dibattiti sono nati morti: non può esserci dialettica tra il fuori e il dentro l'iperrealtà. Ma il sistema dei segni è un fenomeno umano, non una legge di natura. Si può accettarlo com non accettarlo. E qua sopra non si è mai accettato.

PS: Queste non sono speculazioni squisitamente teoriche, parlo sulla base dell'esperienza, in cinque anni di presenza social de "Il Chimico Scettico" se ne sono viste parecchie e qualcuno produsse una breve riflessione su una delle domande più frequenti che tradotta suonava: ma tu nel sistema dei segni dove ti collochi? Erano i tempi in cui postare il diagramma di stato dell'acqua era un atto eversivo, perché qualcuno aveva detto e ripetuto che non bolliva mai prima dei 100°C...





domenica 29 giugno 2025

MODELLI PER TUTTI CON L'INTELLIGENZA ARTIFICIALE?


Forse non lo sapete, ma i GPT sono in grado di elaborare modelli matematici e anche di proporli. 

Prompt per ChatGPT:  
"Se ti chiedessi un modello per un fenomeno fornendoti dei dati saresti in grado di produrlo?"
 

giovedì 26 giugno 2025

IL POPOLO SCIENTIFICO

 

Da Alfred Bester, Destinazione Stelle. Quando si diceva "narrativa di anticipazione": pareva descrivere i fan della scienza sui social, per come me li ricordo. 

Erano - e forse lo sono ancora - il risultato della combinazione tra popolarizzazione della scienza e debunking all’italiana. Del resto, se si attribuisce l’autorità della "scienza" a laureati in scienze politiche, geometri, esperti in comunicazione o ragionieri programmatori, cosa ci si può aspettare? Una platea di lettori appassionati di Feynman o Hofstadter? Difficile crederlo. 

La questione delle qualifiche, per intenderci, non è e non vuole essere classista. E' una questione di formazione: per discutere una pubblicazione scientifica, per esempio, una preparazione al livello di scuola superiore nella stragrande maggioranza delle volte è insufficiente. La stessa cosa si può dire della scelta delle fonti ritenute affidabili: in assenza di mezzi per valutarle autonomamente ci si affida all'etichetta "comunità scientifica". Ma la "comunità scientifica" non ha un numero di telefono, o un indirizzo email. Quindi si sceglie qualcuno con quell'atichetta, una scelta che, quando non è sbagliata per area di competenza, è comunque arbitraria.

Se qualcuno volesse andare a rinfrescarsi le basi delle scienze dette "galileiane" non potrebbe che giungere a una conclusione: il combinato popolarizzazione della scienza-debunking ha prodotto una cultura (in senso antropologico) grottesca come quella descritta da Bester. 

Ma la cosa notevole, guardando indietro (sono passati quasi dieci anni) è che nel campo delle discipline scientifiche nessuno sollevò eccezioni, neanche amichevoli. Anzi, le voci che si udirono in campo scientifico furono di endorsement. Due casi isolati, Walter Quattrociocchi e Fabiana Zollo, sulla base delle loro ricerche fecere notare che l'attività del debunking era autoreferenziale e inefficace (in astratto, senza riferimento alle qualifiche dei protagonisti). Due lodevoli eccezioni, pur non facendo una questione di qualifiche e background, non intaccavano in modo significativo la cifra prevalente dei tempi.

Ma c'erano ragioni politiche, erano i tempi dell'ascesa dei 5 Stelle, che allora flirtavano con tutti i complottismi possibili e immaginabili. C'era un diffuso bisogno politico di autorità da contrapporre alla marea montante, un'autorità che fu concessa liberalmente in funzione sociale, politica e narrativa e non per altro genere di meriti. La cosa andò di pari passo con una surreale polemica contro "chi non aveva studiato", alimentata spesso da gente con titoli di studio decisamente scarsi. 

Si materializzò un contesto in cui si pensò di costruire la "promozione della scienza" a suon di  meme e slogan: “Fidati della scienza”, “Non è un'opinione”, “I dati parlano”. Quello che si ottenne fu la polarizzazione, ma si fece perlopiù finta di niente:  le "nuove" piattaforme richiedevano questi nuovi format. Probabilmente istituzioni e politica pensavano qualcosa del genere e non a caso il tutto si tradusse in un "Vota la scienza, scegli il PD".


E fu proprio il mondo di Bester: una religione "scientifica" che ostentava la sua devozione ma tradiva, a ogni passo, un analfabetismo scientifico imbarazzante.

Perché analfabetsmo scientifico? Perché, tornando alle basi, non basta leggersi un best seller in spiaggia o seguire sui social questo e quello per essere scientificamente alfabetizzati:

La filosofia naturale è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l'universo), ma non si può intendere se prima non s'impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne' quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto. (Galileo Galilei, Il Saggiatore)  

Che non solo la matematica ma il semplice aspetto quantitativo fosse un problema molto serio lo dimostrò una vicenda del 2017, quando l'ossessione "metalli pesanti" del fronte complottista era al suo culmine e finì per comparire pure in una puntata di Report. Un'associazione tedesca commissionò a un laboratorio in Germania  analisi di metalli pesanti su alcuni vaccini. Quei report analitici furono immediatamente diffusi in Italia dai soliti noti. Il clamore fu tale che il CICAP scese in campo. La questione venne così esposta dai due fronti:

1) è un'analisi indipendente e dice la Verità, c'è inquinamento da metalli pesanti
2) è un'analisi "indipendente" diffusa da siti novax che dice che c'è inquinamento da metalli pesanti e quindi è immondizia.

Peccato che le analisi del laboratorio tedesco, fatte con ICP-MS,  dicessero  che no, di metalli pesanti non ce ne erano (era un laboratorio certificato ISO 17025 che fornì un report analitico con tutti i crismi, incluso metallo per metallo LOD - Limit Of Detection, quindi tutti i discorsi del fronte proscienza, CICAP incluso, su peer reviewing e mancanza di un controllo di riferimento se li sarebbe dovuti portare via il vento). 

Per essere più chiaro: un'analisi di un laboratorio certificato "indipedente" diceva che il problema "metalli pesanti" nei vaccini analizzati non esisteva. Ma nessuno in nessuno dei due fronti lo aveva capito e fu montato un caso in cui in opposizione all'offensiva complottista si mise in scena una brutta parodia di scienza (per quella che è stata l'esperienza CS sui social non si trattò di un caso isolato: tranne rare eccezioni la cifra "scientifica" del dibattito era esattamente quella e quella restò in cinque anni di osservazione del fenomeno - diciamo che le considerazioni qua fatte sulla scienza/segno come rumore non sono pura teoria, sono supportate proprio da quelle osservazioni).

Ma tutto questo non importava, tanto, come nel romanzo di Bester, il coro ripeteva "Quant bast!" senza sapere il perché o il per come. Però con un'intenzione precisa: affermare sé stessi contro gli altri e riducendo tutto il discorso a questa dicotomia. 

NB: Questa è storia recente. Fino a tre anni fa, prima che CS lasciasse i social, nulla era cambiato. E probabilmente il quadro è ancora attuale.



CHI SONO? UNO COME TANTI (O POCHI)

Con una laurea in Chimica Industriale (ordinamento ANTICO, come sottolineava un mio collega più giovane) mi sono ritrovato a lavorare in ...