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martedì 8 aprile 2025

I VALORI DELL'OCCIDENTE: LA LIBERTA' ACCADEMICA (?)

https://www.ilfattoquotidiano.it/2025/04/05/epidemiologo-ioannidis-effetti-lockdown-covid/7938854/

L'articolo di Gandini e Bartolini merita la lettura, ma più merita l'intervista di Ioannidis:


Riguardo il clima del dibattito scientifico nel 2020:

Era un ambiente altamente tossico, credo, per chiunque volesse contribuire al dibattito presentando dati e evidenze ragionando su cosa stessero a significare. Molti hanno preso posizioni molto forti, c'era una polarizzazione molto forte, molta partigianeria e la sensazione che fosse l'ideologia a mandare avanti il tutto. Non le migliori condizioni per l'attività scientifica, specialmente per chi non aveva ideologia politica e che non voleva soddisfare una o l'altra narrativa. Le minacce di morte erano frequenti... Credo che l'ambiente fosse così tossico che la maggioranza degli scienziati che avessero una qualche esperienza rilevante in campo epidemiologico si è autosilenziata. In molti mi hanno detto: John, è incredibile, non possiamo credere che stia accadendo, se tu sei attaccato in tal modo se tentassimo di dire qualcosa noi saremmo completamente annientati.

Vi consiglio caldamente la visione di tutto il video, ma vorrei espandere questo punto. Il "caso Ioannidis" ha riguardato anche il pubblico generale e la politica, ma l'aspetto per me più significativo è stata la reazione della "comunità scientifica" e delle sue estensioni comunicative. Se ne occupò un pezzo sul BMJ:

John Ioannidis è un professore della Stanford riconosciuto ampiamente come uno dei più importanti scienziati medici del nostro tempo; molti dei suoi studi e delle sue analisi sono tra i più citati in medicina e sanità pubblica. Tuttavia, nell’ultimo anno è diventato anche bersaglio di attacchi intensi, e spesso ad hominem, a causa dei suoi scritti, interviste e ricerche sul covid-19. Sebbene ci siano chiaramente critiche valide a uno studio sulla prevalenza del covid-19, di cui era coautore secondario, molti degli attacchi rivolti a Ioannidis hanno distorto la sua posizione complessiva e hanno anche affermato, senza alcuna prova, che la sua opinione fosse basata su simpatie politiche pro-Trump e/o su un conflitto di interessi economico personale.

Jeanne Lenzer e Shannon Brownlee hanno descritto gli attacchi a Ioannidis in un articolo d’opinione (e un box di approfondimento) su Scientific American, in cui riportano anche che un’indagine indipendente a Stanford non ha trovato alcuna prova a giustificazione di tali attacchi. Inoltre, hanno lanciato un appello ragionato alla comunità sanitaria affinché si evitasse di inquadrare le opinioni sul covid-19 in termini politici, sostenendo non solo che è di importanza cruciale affrontare questa pandemia da scienziati, ma anche celebrando un recente incontro alla Johns Hopkins in cui gruppi con visioni inizialmente molto diverse hanno riconosciuto i modi significativi in cui in realtà erano d’accordo, indicando così una strada promettente per il futuro. In sostanza, chiedevano che le divergenze venissero affrontate come colleghi, e non come inquisitori moralisti, per poter collaborare alla ricerca del miglior modo di proteggere la salute pubblica.

Lenzer e Brownlee, a loro volta, sono state attaccate personalmente dopo la pubblicazione del loro saggio, non solo sui social media, ma – cosa più rilevante – anche tramite comunicazioni inviate a organizzazioni di cui fanno parte e a riviste per cui avevano scritto in passato, con richieste affinché non fosse più permesso loro di pubblicare. Questo ha portato alla rimozione di Brownlee dal comitato consultivo della rivista Undark, nonché alla pubblicazione di emendamenti critici agli articoli originali sia su Undark che su Scientific American, i quali suggerivano che le due giornaliste avessero un conflitto di interesse non dichiarato, e le rappresentavano come se avessero fuorviato le redazioni. Queste accuse si basavano sul fatto che Ioannidis era stato coautore di un piccolo numero di articoli di revisione scritti da una o l’altra di loro. Lenzer e Brownlee contestano tale interpretazione generale e molte delle “correzioni” specifiche; affermano che la loro risposta non sia stata adeguatamente considerata da nessuna delle due pubblicazioni.

L’ironia evidente di tutta questa vicenda è sia sconvolgente che demoralizzante—Lenzer e Brownlee sono state attaccate per aver scritto un articolo che ci invitava a non attaccare qualcuno solo perché ha assunto una posizione impopolare.

La libertà accademica al suo meglio, vero? Notare le "comunicazioni alle istituzioni". La delazione/denuncia alle istituzioni in cui lavoravano i bersagli dell'indignazione proscienza è un qualcosa che è iniziato ai tempi del morbillo 2017 in Italia ed è lievitato a dismisura in tempi pandemici. Delazioni e denunce il più delle volte surrettizie, contestanti qualcosa di fin troppo simile a un attentato all'ordine morale dello Stato (fascismo) o al comune sentire del popolo (nazismo). Alla voce "quanto ne siamo usciti migliori".

Oggi a ragione si parla delle politiche di Trump nei confronti della ricerca pubblica e delle università USA come un attacco contro la libertà accademica. Ma chi lo lamenta molto probabilmente faceva parte della torma dei linciatori di Ioannidis, che oltreoceano erano una solida maggioranza nel mondo scientifico. Come ogni libertà, anche la libertà accademica non è mai quella degli altri.

mercoledì 2 ottobre 2024

domenica 14 aprile 2024

LAUREE STEM E DONNE, ANCORA

 

La storia raccontata da Sabine Hossenfelder, che vi invito a vedere per intero (ci sono i sottotitoli in italiano), è degna di nota soprattutto perché, come lei stessa dice, è emblematica. Avendo avuto parenti e amiche che hanno preso la strada della ricerca accademica non mi è suonata nuova. Farei notare che conferma un'espressione che ho usato più volte (non a caso) quando ho detto che lo scopo della ricerca accademica è produrre carta (perlopiù).

Dopo di che vorrei aggiungere una considerazione del tutto personale, sulla base della mia lunga  esperienza lavorativa. Appena laureato scelsi il privato, anche se mi era stato offerto il dottorato, e per il motivo più banale possibile: i soldi (ai tempi le borse di dottorato erano molto esigue). Nel privato ho costruito la mia professionalità. 

"Professionalità" può essere un concetto interpretato in vari modi. Come lo intendo io è svolgere il proprio lavoro in modo qualificato coordinandosi produttivamente con tutte le funzioni aziendali coinvolte, in primis riconoscendo a mia volta la loro professionalità. Potrei definire la cosa come "lealtà professionale". 

Piccolo particolare: nei contesti privati non tutti aderiscono a questa visione, nei fatti. Negli anni ho visto conflitti apparentemente insanabili tra funzioni e tra gruppi, individui che mettevano il proprio ego (e la propria carriera) al di sopra di ogni cosa, interesse aziendale compreso. E spesso ho visto competizione tra chimici, del tipo "io ne so più di te" "No, io so fare meglio di te". E devo dire che negli anni ho avuto più lealtà professionale da colleghi donne che da colleghi uomini. Ma ho anche visto in gruppi tutti femminili dinamiche da gineceo, in cui l'ultima arrivata o quella "divergente" era sottoposta a pratiche vessatorie più o meno sottili.

domenica 3 marzo 2024

PESO (DOVE SI PARLA DI UNIVERSITA', SCUOLA, RIFORME...)

Quale peso? Quello delle lauree di chi ha collaborato con la sigla CS, per esempio. Ci siamo trovati per caso, o forse no. Alcune collaborazioni arrivarono pochi mesi dopo l'apertura della pagina facebook. Si diceva che la competenza riconosce la competenza, o almeno lo fa quando non è in malafede (e di soggetti in perfetta malafede ce ne sono stati tanti). Questa è una cosa che ovviamente riguarda gli "skilled in the arts". Quelli senz'arte con parte, tipo il debunker o il divulgatore medio, causa mancanza di terreno comune non ci potevano arrivare. Soprattutto non ci potevano arrivare che pochi prodotti delle riforme dell'università italiana, un fallimente certificato (https://www.roars.it/flop-del-32-lettera-del-cun-a-repubblica-non-pubblicata-sullinconsistenza-dei-dati-citati/). Alcuni, fuori dal numero esiguo delle collaborazioni, ci arrivarono: studenti universitari che si interrogavano su quello che studiavano e sul loro futuro lavorativo (al che mi viene da dire che ci sarebbe speranza, ma è molto poca e tende a lasciare i confini italiani espatriando).

Di recente è venuto fuori un gran can can (probabilmente giù esaurito) su illo:

https://www.deejay.it/articoli/roberto-burioni-studenti-bocciati/

Ora, io non sono in nessun modo sospettabile di simpatie nei confronti del soggetto, però a questo giro nulla da rimproverare a nessuno. E poi, che diavolo, tosto un esame di microbiologia? Sul serio? E allora nel vecchio ordinamento un Analisi II o Chimica Fisica II o un Metodi Matematici della Fisica che cosa erano, roba inumana?. 

Ma il problema qua non è né il professore né gli studenti. Il problema è il sistema scolastico prima di quello univesitario. Il discorso non è semplicemente: non hanno studiato. Il punto è che quanto alle basi. a partire dalla comprensione del testo, la media odierna non solo è inferiore a quella degli anni '90:  è più bassa anche rispetto anche a soli cinque anni fa. La cosa è stata certificata dal rapporto PISA2022 e non credo che in questa rilevazione l'Italia costituisca un'eccezione in positivo, anzi.

Quindi quando arrivi al test o all'esame o avevi qualcosa di tuo o se tutto quel che hai te l'ha dato la tua formazione scolastica sei in difficoltà più o meno serie. Non si può scaricare su un professore universitario, qualunque egli sia, il fallimento della scuola italiana (un fallimento in cui i docenti sono vittime quanto gli alunni). E non gli si può chiedere di emendare i danni inflitti agli studenti nei precedenti anni. Se poi invece gli si chiede di uniformarsi adattandosi al livello medio dei nuovi studenti io non sono minimamente d'accordo. Questo vuol dire meno lauree (il principale problema che le politiche universitarie si sono poste negli ultimi decenni)? Chi se ne frega, tanto le idiote politiche per aumentarne il numero sono già fallite.

E a questo proposito...

Da un certo punto di vista è un discorso di bilancio di massa. Se hai un sistema con la massima capacità di produrre x tonnellate, l'unico modo di produrre un numero maggiore di unità è passare da unità che pesano x/100 a nuove unità riformate che pesano meno. Diciamo che tu te ne stavi tranquillo con il tuo sistema che produceva unità da x/100 e 4x/100 erano quelle che si perdevano per strada (ma non c'era alcuno sbarramento all'ingresso). Poi hai sentito da qualche parte che con unità da x/100 i numeri erano troppo, troppo bassi. Non garantivi una quantità sufficiente di lauree ai tuoi giovani e quindi avevi troppo pochi laureati. La soluzione più immediata? Passare da x/100 a x/1000. Decuplicare il numero dei laureati, ma il laureato unitario pesa dieci volte di meno. Poi per amor di sistema su 1000 candidati 100 li seghi con i test di ingresso, in modo più o meno arbitrario.

In realtà le cose non sono andate così. Il numero di laureati non è decuplicato. I conteggi che mettono insieme lauree brevi e magistrali, senza contare la sovrapposizione tra le due, mostrano un conto raddoppiato (https://www.almalaurea.it/sites/almalaurea.it/files/convegni/Bergamo2021/04_sintesi_rapportoalmalaurea2021.pdf). Quindi, come altri hanno già rilevato, hai dei bei grafici per far vedere l'impennata delle lauree dopo le riforme, ma la percentuale dei laureati magistrali è più o meno quella di prima. Ma non è solo questione di lauree brevi: l'impatto delle riforme sul sistema è stato profondo (e profondamente negativo). Un vecchio amico rimasto all'università e ancora professore associato a 50 anni (come quasi tutti gli altri, in quel dipartimento)  sintetizzava così i risultati del processo: "A noi ci massacravano e siamo usciti che qualcosa sapevamo. Loro siamo costretti a mandarli avanti ed escono che non sanno una sega". 

Nel frattempo c'era altro che cresceva, per esempio il numero delle facoltà:

Piccolo particolare, i numeri del personale docente non crescevano di pari passo:

 


Si è semplicemente passati dai 23 iscritti per docente del 1989 ai 31 iscritti per docente del 2013 (fonte https://seriestoriche.istat.it/index.php?id=1&no_cache=1&tx_usercento_centofe%5Bcategoria%5D=7&tx_usercento_centofe%5Baction%5D=show&tx_usercento_centofe%5Bcontroller%5D=Categoria&cHash=1b020e5419ca607971010a98271e3209 ). Wow, le riforme hanno aumentato la produttività dei docenti universitari italiani del 33%! Ops, non proprio. Forse forse una qualche conseguenza sulla qualità media del laureato italiano c'è stata. Provate a collocare in queste sequenze cronologiche la mitologia de lascienza con i suoi eroi (tipo ilricercatore https://ilchimicoscettico.blogspot.com/2022/11/ilricercatore-lignoranza.html), ricordando sempre che "correlation is not causation" ma anche che "absence of evidence is not evidence of absence" (il motore perpetuo esiste, è il generatore di buzzword vuote e non bada troppo alla coerenza di quel che produce).

Parlando di chimica, queste sono le immagini di un sistema che può produrre gente col pieccedì ma che non sa diluire acido cloridrico concentrato per ottenere una soluzione 1 molare (storia vera). In pratica ci siamo allineati alla tipologia di istruzione universitaria anglosassone, o meglio ai suoi aspetti peggiori. A metà anni 90 sul lavoro rimasi sinceramente stupito da PhD britannici preparatissimi sulla loro area di specializzazione, ma che non avevano idea di come si potesse eseguire una titolazione acido base in solventi non acquosi. E con gli ingegneri chimici le cose non andavano molto diversamente. Ho conosciuto contesti in cui l'ingegnere chimico modellava il pennacchio di un camino da cui usciva CO (ma il detto ingegnere era vicino alla pensione). E altri contesti in cui gli ingegneri, vecchi o più giovani che fossero, si erano scordati cosa fosse un numero di Nusselt, perché magari da dieci anni o da una mezza vita si erano immersi nel continous improvement. O ancora master in ingegneria chimica che in un'equazione cinetica non distinguevano tra variabili e costanti.

Inutile dire che tutto questo ha una ricaduta anche sul know how industriale. Ho detto più di una volta che il know how industriale cammina sulle gambe delle donne e degli uomini che nell'industria lavorano. Non esiste sistema di procedure o workflow che lo possa sostituire, anche se questa è un'illusione persistente di molti management.

Più in generale la conoscenza e soprattutto il saper fare caratteristico di una società non sono un bene accumulato e immutabile. Ci sono fasi storiche in cui questi beni crescono ed altre in cui questi beni vengono lentamente dispersi. Per esempio nel passaggio da questo

www.museivaticani.va/content/dam/museivaticani/...
Augusto, circa 20 A.C.

a questo


Teodosio II, V secolo

venerdì 5 maggio 2023

PRIVILEGIO

https://www.orizzontescuola.it/diritto-allo-studio-in-italia-solo-il-14-degli-studenti-percepisce-una-borsa-di-studio-media-europea-e-del-30/

 

Ci fu un tempo in cui i figli degli operai o dei piccoli impiegati pubblici si laureavano e diventavano avvocati, ingegneri, medici, professoti universitari. Ci fu un tempo in cui la classe operaia non era riuscita andare in paradiso, ma si era fatta l'auto, la casa di proprietà e le vacanze al mare tutti gli anni. In breve ci fu un tempo in cui l'ascensore sociale funzionava (e in Italia esistevano strutture del Diritto allo Studio degne di queto nome).

Nella mia famiglia gli operai, i contadini e i piccoli impiegati erano due generazioni prima della mia. Io sono stato fortunato ed ho beneficiato di un ambiente familiare pieno di libri e musica, ho trovato scuole pubbliche e università in condizioni molto migliori di quelle presenti. Ed è in larga parte grazie a questo che ho il curriculum che ho e ora sono dove sono (cioè in un'ottima posizione). Certo, non tutti i miei colleghi coetanei potrebbero dire lo stesso (il destino ha concesso a troppi uno sconto sdegnoso sui loro meriti). Ma non è questo il tema del post.

Il fatto è che sono in un'ottima posizione perché sono stato e sono un privilegiato. Un privilegiato in quanto ho potuto beneficiare di educazione e istruzione che oggi, in Italia, per i più non sono disponibili. E sapendo di essere un privilegiato tutta la retorica sulla meritocrazia, sui giovani che non ce la fanno perché non hanno voglia di studiare o lavorare, beh... semplicemente la trovo vergognosa.

Perché chi dice "vedete, io ci sono riuscito, si può!" (ci sono casi reali ed altri massimamente farlocchi https://www.huffingtonpost.it/life/2022/06/11/news/giovani_fate_gavetta_da_cameriera_a_ceo_di_un_brand_da_milioni_di_euro_di_fatturato_la_storia_di_vittoria_fondatrice_d-9575476/) semplicemente pensa di esserci riuscito solo per merito personale e per niente altro, quando decine di individui come lui che volevano studiare e lavorare e che avevano in teoria le stesse possibilità non ci sono riusciti. Ed è a questo che si riduce, oggi, la morale dei sedicenti "inclusivi": a un vuoto "volere è potere". L'articolo di Orizzonte Scuola è dello scorso novembre e parla dell'accesso alle misure esistenti, che sono una frazione di quelle che erano. E, strada facendo, anche le banche italiane hanno cominciato a proporre "prestiti studenteschi" per finanziare il cursus studiorum (qualcuno ha presente la crisi dei debiti studenteschi in USA?).

Il provare a camuffare con vuote parole d'ordine moralistiche i disastri del definanziamento del settore pubblico ormai è diventata la regola. Ma ancora peggiore è la rassegnazione, spesso camuffata buonescamente: le risorse sono quello che sono, bisogna impegnarsi al massimo con quello che c'è (anche sapendo che l'anno prossimo sarà di meno).


venerdì 10 marzo 2023

DALL' UNIVERSITA' ALL'INNOVAZIONE, VIA "LEGGERE IMPRECISIONI"


Le riforme universitarie italiane dai primi 90 all'inizio del nuovo secolo sono riuscite a aumentarne la capacità di generare gente che non vorresti non solo nel tuo team, ma in tutta l'azienda. Ma forse no, e perché no? Perché ci sono aziende che pensano che se anche il progetto stia nella melma più alta la cosa più importante sia stordire il committente di parole facendo credere che no, il livello della fogna è bassissmo e abbiamo un quadro chiaro di come trovare la strada per il sole del successo della tua idea (idea che morirà nel fango). Ci sono aziende che campano (quando ci riescono) anche o sopratutto su questi progetti, spesso improbabili:  è l'ecosistema delle startup e delle biotech. Da una parte c'è quella che può essere definita l'offerta di innovazione. Dall'altra c'è la gestione di capitali che cerca rendimenti più alti. Il trait d'union tra offerta di innovazione e capitale sono Venture Capitalist e Business Angels, soggetti che di solito sanno benissimo che il tasso di successo nella ricerca farmaceutica è sempre lo stesso: un 10% scarso. Ma... VC e BA non sono lì per far arrivare un farmaco all'approvazione. Sono lì per far crescere di valore i propri assett per poi venderli al momento opportuno, o quotarli in borsa.

Eh già, i dati del mondo reale sono quelli che sono: multi vocati sunt, pauci electi. Di spinoff universitarie e startup con l'idea geniale ce ne sono a bizzeffe. Ma di idee che funzionano ce ne sono molto poche.

E' un processo, ed un processo che genera utili in più di un modo. Perché l'idea, buona o apparentemente buona, ha bisogno di essere testata. E visto che di solito chi ha generato l'idea buona o apparentemente tale non ha le strutture per produrre quel che deve essere testato, con i soldi degli investitori pagherai service provider per la biologia, la sperimentazione animale, la chimica e tutto il resto (e i service provider ringraziano, quando il committente è in grado di pagare alla fine - e non sempre è il caso).

Essendo stato nello specifico ramo ricordo bene. Ricordo bene la differenza tra i dilettanti finanziati dagli ignari e i professionisti, quelli seri. Questa è la conseguenza di un mutamento sistemico verificatosi una ventina di anni fa, quando le grandi farmaceutiche, che di know how ne avevano a pacchi, hanno cominciato a dilapidarlo con le ristrutturazioni e i conseguenti licenziamenti. Per poi iniziare a vagliare quel che veniva fuori dal settore start up e biotech, vedendo se c'era qualcosa che meritasse di essere sviluppato. e magari alla fine della fase II, o all'inizio della fase III. E' in quell'epoca "magica" che si sono verificati episodi emblematici (tra tutti https://ilchimicoscettico.blogspot.com/2018/06/fior-di-giglio-intascare-700-milioni.html). L'hype driven stuff è un bel giocattolino da soldi, per i mercati finanziari (storia vecchia ormai https://ilchimicoscettico.blogspot.com/2018/06/scienze-innovazione-e-hype.html ).

Valutando tutto il meccanismo nel modo più freddo di questo mondo: 

1) Il meccanismo produce, alla fine, innovazione? Sì.

2) Questo meccanismo è efficiente? No. Ma...

3)... Ero ancora un ragazzino quando leggevo dell'inefficienza della ricerca delle grandi farmaceutiche, e da professionista più avanti negli anni continuavo a leggere le stesse cose. Poi...

4) ... c'è una quantità di soggetti che ci guadagnano in ogni caso. E non sto parlando solo di capitale finanziario. Ehi, è roba che paga stipendi, comunque, alla fine, oggi ai tempi delle CRO come ieri ai tempi delle farmaceutiche grandi per davvero (come headcount, non solo come fatturato).

Qualche anima bella ha pensato che la soluzione al problema sia il delinking (vedasi queste "leggere imprecisioni" https://lavoce.info/archives/49192/piu-premi-meno-brevetti-sui-farmaci-innovativi/ ). Ma tutti i discorsi sul delinking che ho sentito nel tempo glissano con eleganza sui due elefanti nella stanza. Elefante numero uno: che l'accademia e la ricerca pubblica da sole possano essere più efficienti nel processo rispetto all'attuale sistema è tutto da dimostrare. Diciamo che ad ora le prove di efficienza di sistemi alternativi non hanno fatto gridare al miracolo, anzi. Si guardi a TB Alliance (https://ilchimicoscettico.blogspot.com/2019/09/il-primo-anti-tbc-sviluppato-da-ong.html ): un miliardo di dollari in 20 anni per avere un farmaco approvato, e con un profilo peggiore di quanto uscito dal privato - il farmaco no profit costa meno, ma è stato usato in primo luogo per far abbassare al privato il prezzo del suo farmaco (migliore). No, a naso non direi che sia una gran prova di efficienza.

Elefante numero due: i budget. Chi parla di decine di milioni come budget adeguato per lo sviluppo di un farmaco o è del tutto incompetente o è in perfetta malafede. Si parla in realtà di centinaia di milioni, ed il grosso del costo è costituito dai trial clinici. Ma si ritiene comunemente di ovviare comunque al prezzo dei farmaci con il produttore asiatico e questo è un mantra ideologico, perché al di là dei costi di produzione ci sono sempre quelle centinaia di milioni per i trial clinici. Qualcuno dei soliti genii ha pensato che la soluzione al problema possa essere il porsi al di fuori della regolazione farmaceutica occidentale. Che in prospettiva sarebbe più o meno: 80 anni per liberarsi dall'incubo Elixir Sulfanilamide ( https://en.wikipedia.org/wiki/Elixir_sulfanilamide ), 20 per tornare al punto di partenza. Scordandosi talidomide e bambini focomelici, tra l'altro.

C'è infine da considerare un altro fattore: al momento il presente meccanismo inefficiente paga stipendi a un platea un po' più larga (e spesso più competente)  di quella accademia-ricerca pubblica. Ma guarda caso questo è un aspetto che per i più è assai poco interessante.

Un riassuntino spiegato facile? Uno stato che taglia la sanità ma aumenta la spesa militare non solo non vuole  pagarvi il farmaco innovativo ma, se pure avesse il know how che non ha, neanche sarebbe disposto a spendere quei miliardi che servono ad avere una pipeline che va avanti e farmaci approvati. As simple as this. Quanto alla farmacologia medica italiana meglio lasciar perdere (ricordatevi il lopinavir in funzione anti COVID grave: è una pietra tombale fin troppo pesante per la bisogna - chi ha sostenuto che sia stato un errore giustificabile ha una malafede pari alla sua ignoranza).


mercoledì 23 novembre 2022

ILRICERCATORE, LIGNORANZA, ILSUFFRAGIOUNIVERSALE

 

Ilricercatore, probabilmente con ilPhD, finito allo sportello delle Poste.

Alcune considerazioni. Che allo sportello delle Poste Italiane arrivino oves boves et pecora omnia lo so dai racconti di un amico (non PhD, non laureato, alle Poste da un tre decenni, ormai) .

Ma perché ilricercatore è ridotto allo sportello alle Poste?

Proviamo a fare alcune ipotesi.

1) Ilricercatore (ex) non vuole lavorare lavorare lontano da mammà (che quando arrivi ti stira le camice, che se te le stiri da solo vengono fuori un disastro)

2) Ilricercatore lontano da mammà non ci può proprio lavorare: perché il suo CV magari in Italia non ha mercato, ma all'estero lo considerano -10. E quindi è allo sportello alle Poste, ha uno stipendio, e dovrebbe essere contento di aver passato il concorso così il 27 arriva il bonifico e non deve dipendere da mammà.

3) Ilricercatore si sente schifato dallo sportello alle Poste perché gli tocca aver a che fare con quella gentaccia. Bene, molto educativo. Hai scoperto che non tutto il mondo ha un'istruzione secondaria (universitaria sarebbe già troppo). Complimenti! La capacità delle scuole elementari di trasmettere competenze base è crollata a picco negli ultimi 30 anni. La buonanima di mia nonna aveva la quinta elementare, ma non aveva problemi a scrivere in italiano corretto con una buona calligrafia e a far di conto a mano. Riversiamo sugli ignoranti le colpe di chi ha fatto a pezzi la scuola italiana?

4) Un amico mi dice che lui il suo corso per il dottorato dati&modelli lo inizia con un ripassino di analisi I. Perché i dottorandi (oves boves er pecora omnia 2.0, mi dice) nella migliore delle ipotesi hanno un dannato bisogno di un ripasso, nella peggiore ignorano completamente la materia, tanto non serve perché c'è il software. Quindi forse ilricercatore è l'analogo moderno di quello con il diploma dell'Istuto Commerciale di 40 anni fa, in questo caso.

5) Ilricercatore vive a sud di Roma, magari parecchio a sud, forse in uno di quei luoghi dove in Università non diventi neanche un tecnico di laboratorio se il mammasantantissima dell'ateneo o uno dei suoi fedeli non ti si fila. Oppure vive a nord dove succedono esattamente le stesse cose.

Di recente ho ricevuto una mail di Un Ricercatore che mi inviava le sue riflessioni sull'essere espatriati. Uno che si è fatto tutta la trafila europea di PhD e postdoc. E ha finito per restarci, in ambito accademico, fuori dall'Italia. Non senza rimpianti. Al che verrebbe da dire a ilricercatore: ciccio, se non hai i numeri ringrazia di avere lo sportello alle Poste, che in un modo o nell'altro alla fine del mese ci arrivi. E se la tua lettera di sfogo viene ripresa da ilquotidiano e non ti rendi conto di essere perfettamente funzionale a quel sistema che ti ha precluso il posticino di tecnico all'Università o di tecnologo al CNR, beh... forse non ti meriti neanche lo sportello delle Poste. Magari dopo 20 anni di sportello troverai l'illuminazione. Ma più probabilmente dopo 35 anni (se va bene) quel che troverai sarà una magra pensione, scriverai di nuovo una lettera a ilquotidiano e un successore di della Loggia te la pubblicherà commentandola. E allora sarà troppo tardi per capire. 

Cosa ci sia dietro "Italia e analfabetismo" e dietro decine di titoli del tutto analoghi si capisce al volo. Ve la ricordate la discussione sull'epistocrazia? Ve li ricordate gli ignoranti che hanno determinato Brexit e eletto Trump? In breve, la critica al suffragio universale. Un tema che da anni va forte sui social, nonché nelle teste di tanti benpensanti.

Io sono nato quando la Repubblica Italiana e la sua democrazia erano ancora nei loro anni verdi - e già nei loro anni verdi ci furono faccende di tintinnar di spade. E sono cresciuto tra tentati colpi di stato, terrorismo rosso e nero, strategia della tensione, piani di rinascita democratica. E non mi posso scordare che la critica del suffragio universale e della democrazia era un tema missino, anzi rautiano, quindi proprio fascista-fascista. Per questo mi venne da scrivere un piccolo "Contributo all'alfabetizzazione degli analfabeti politici":


 I social sono un mondo fantastico in cui perlopiù regna il pregiudizio decerebrato. Quindi può capitare che uno (chi scrive) passi parte della domenica con un cineforum a tema Costa Gavras (da "Z - l'Orgia del Potere" a "Music Box", passando per l'imprescindibile "Missing"), e che due giorni dopo venga accusato di essere collaterale a Forza Nuova. Perché il green pass è "ordine pubblico". Ecco, quando sento "ordine pubblico" sparato in questo modo a me viene in mente Junio Valerio Borghese che parla "per l'ordine pubblico" (e i critici del suffragio universale ricalcano Pino Rauti, che a loro piaccia o no, se ne facciano una ragione una volta per tutte). Guardate questo video: https://www.youtube.com/watch?v=4-SwIjI7I_A . "Dagli all'untore!", in purezza, e siamo sullo stesso piano di "dagli al nero", "dagli all'ebreo" - l' odio per il diverso, in questo caso coperto e legittimato dal politicamente corretto. Questo è un mio piccolo contributo all'alfabetizzazione degli analfabeti politici che di quando in quando si affacciano qua sopra col ditino alzato, sparando giudizi e sentenze. Se c'è stata un'opera di grande significato nella storia della RAI si tratta de "La notte della Repubblica", di Sergio Zavoli. E chi parla a casaccio farebbe bene a vedersela tutta, non limitandosi a questo singolo video. https://www.youtube.com/watch?v=d_LAQY62ejo

Oggi mi sono stancato sia di contribuire che di polemizzare. Per quanto si dichiarino tolleranti e democratici (in realtà di solito partitodemocratici) quelli che si dilungano sui social su "basta suffragio universale" "a questi va levato il voto" eccetera esibiscono di solito la più becera e gretta imbecillità, da sempre caratteristica dello squadrismo totalitario. Li trovo semplicentemente rivoltanti. Period.

PS. Quanto a ricercatori impiango il Dr Rob. Fu una delle voci più lucide dell'ambiente, Solo Un Altro PostDoc (https://solounaltropostdoc.wordpress.com/) - quelle per niente lucide "divulgano" tuttora. Lui non sarebbe mai stato considerato da ilquotidiano (non funzionale), ma del resto non credo avrebbe mai avuto la pulsione di scrivere una lettera al giornale.

giovedì 10 novembre 2022

UNIVERSITA', IERI E OGGI

Il meraviglioso mondo dei social vi ha abituato a gente con il PhD nella bio. Che quindi ha un valore in sé, come ai tempi in Italia una qualsiasi laurea conferiva il titolo di "dottore": dottore in legge, dottore in lingua e letteratura francese, dottore in scienze politiche etc. 

Era l'eredità di tempi in cui i laureati costituivano una popolazione relativamente esigua della popolazione italiana, e quindi costituiva un titolo distintivo. 

Sempre ai tempi, per fare un esempio che conosco bene, il dottorato (che durava due anni ed era pagato quasi 0) lo faceva solo chi era intenzionato a rimanere all'università: ricercatore prima, professore poi (e non era una transizione ardua come lo è ora). E non era particolarmente significativo dal punto di vista della formazione del chimico, che si era fatto negli anni diversi mesi di laboratori vari e di solito più di un anno di tesi sperimentale.

Oggi le cose sono assai diverse e per molti versi il sistema italiano si è allineato a quello anglosassone e nord europeo. Oggi l'unica sicurezza che un laureato in chimica (o CTF) abbia il minimo sindacale di background sperimentale è costituito dal PhD. E questo perché tra tre più due e tagli di spesa durante i cinque anni i laboratori sono passati da diversi mesi a qualche settimana. Motivo per cui quando mi chiedono di valutare curriculum di solito sorvolo sulle lauree magistrali moderne italiane (anche perché subissate in numero da PhD e postdoc, anche italiani).

Ma in questa anglosassonizzazione dell'universtà italiana c'è un pezzo che manca, o meglio che è sparito.

Ok, ai tempi in Italia non funzionava come negli USA, con una divisione netta tra università di fascia alta e di fascia bassa. Ma si sapeva bene che c'era università e università, parlando di chimica anche per quello che riguardava non solo la qualità della formazione ma anche la difficoltà del percorso per arrivare alla laurea. Mi ricordo gente che "andava a sbiennare" in università meno esigenti, per poi tornare dopo essersi tolta il peso.

Ecco, oggi tutto questo che, ripeto, nei sistemi anglosassoni è un fatto scontato, in Italia sembra scomparso. Anche perché in una selva di graduatorie e valutazioni ogni università o dipartimento si può trovare quella in cui è messa bene e magari riescono a trovare una classifica in cui escono primi o secondi, anche se assieme a centinaia di altri. Ma vuoi mettere la soddisfazione di dire "Sono arrivato uno!".

Ma, se si guarda alle università italiane nell'Academic Ranking Of World Universities i più vecchi troveranno la lista mollto familiare:

Il quadro è più o meno sempre stato quello o lo è stato negli ultimi cinquanta anni o giù di lì. E questo indipendentemente da quanto chi è fuori dalla lista provi ad affermare diversamente.

mercoledì 19 gennaio 2022

QUANDO LA SICUREZZA E' UN COSTO (O SOLO CARTA)

Quale è stato il motore dell'offshoring e dell'outsourcing verso la Cina, diventato compulsivo all'incirca dal 2005? I costi. E inutile girarci attorno, ambiente e sicurezza sono costi. Costi sacrosanti, sì, ma solo "da noi". Altrove no.
La sicurezza nei laboratori è cultura tecnico-scientifica: "Al di là delle leggi, i datori di lavoro e gli scienziati si ritengono responsabili del benessere di chi lavora nella struttura e del pubblico in generale. Lo sviluppo di una cultura della sicurezza - con responsabilità in basso e in alto alla catena amministrativa e scientifica - è risultata in laboratori che sono di fatto ambienti sicuri in cui insegnare, imparare, lavorare. Farsi male, per non parlare di martirio, non è più di moda" (così in "Prudent Practice in Laboratories", edito dalle National Academies of Science, Engeneering and Medicine (https://www.nap.edu/.../prudent-practices-in-the...).
Tra la citata "cultura della sicurezza" e i corsi di formazione all'italiana c'è parecchia differenza. E, generalizzando oltre i laboratori, la differenza diventa abissale quando si va a considerare quella tra le leggi italiane e la realtà del mondo.
Post testo unico 2008 un consulente mi raccontò che in un'azienda il responsabile per la sicurezza esigette di avere la Scheda di Sicurezza per... l'acqua della caldaia (se ti infili dentro la caldaia puoi annegare, se l'acqua è molto calda ti puoi scottare, voleva roba del genere).
Ad alcuni anni luce dalle disposizioni del legislatore italiano c'è il mondo reale, in cui periodicamente qualcuno muore asfissiato operando in una vasca o in una cisterna e altri, alle volte un sindacalista, più spesso un generico commentatore, dicono "se avesse avuto una mascherina..." - se avesse avuto una mascherina sarebbe morto lo stesso, non si va a uno scontro a fuoco con un coltello e con una mascherina dove serve un autorespiratore.
Ma ritorniamo a sicurezza, costi e formazione (non corsi di formazione all'italiana). La formazione, specialmente universitaria, è un problema serio, e la mancanza di formazione in materia di sicurezza ha provocato tragedie in contesti dove, in teoria, non te le aspettersti (https://cen.acs.org/.../10-years-Sheri-Sangjis-death/97/i1, per un conciso commento tecnico https://twitter.com/ChimicoSce.../status/1482762151207002113). Se contesti come quello americano hanno saputo reagire in qualche modo dopo episodi tragici, altrove le cose sono sempre state differenti: sicurezza e ambiente solo costi, per l'appunto - un motivo culturale.
Quindi non stupisce che in Cina il problema della sicurezza nei laboratori persista, e faccia vittime.

 

martedì 2 luglio 2019

COME NEGLI USA





Che ci fa la foto di un Carousel Radleys di accompagnamento a questo articolo?
E' un sistema per reazioni in parallelo, e sono sicuro che nessuno nei gruppi di ricerca degli accademici citati ne ha mai fatto uso.
Vabbè, scusate la divagazione, deformazione professionale. L'articolo con i sistemi in parallelo c'entra poco, pochissimo. C'entra molto invece con un brutto vizio: quello di photoshoppare immagini da inserire nei propri articoli per mostrare risultati che non ci sono: possono essere immagini della microscopia, western blot, PCR. E' una pratica tristemente diffusa, che ha preso piede assieme al publish or perish (e questo non vuol essere una giustificazione, affatto). Ma qua non c'è di mezzo una figura di seccondo o terzo piano con la tenure a rischio che presa dalla disperazione si dà al fotoritocco. Qua ci sono alcuni grandi nomi della ricerca meneghina e italiana, quelli "di fama internazionale" (http://www.giannibarbacetto.it/2019/06/30/ricerca-sul-cancro-fondi-milionari-e-risultati-manipolati/?fbclid=IwAR2xvtx_6-BgSItVcWPPfQ_0p1-t9M_JCkuudm1hUh59w3YhY-ii5J7vtfg)
"Pier Paolo Di Fiore (dell’Ifom, il centro di ricerca dedicato allo studio della formazione e dello sviluppo dei tumori a livello molecolare), Alberto Mantovani (dell’Humanitas, l’istituto di ricerca e cura della famiglia Rocca), Pier Giuseppe Pelicci (dello Ieo, l’Istituto europeo di oncologia fondato da Umberto Veronesi), Marco Pierotti, Maria Angela Greco, Elena Tamburini e Silvana Pilotti (dell’Istituto nazionale dei tumori)"
L'indagine si chiude dopo tre anni e ha acquisito le prove delle frodi scientifiche, che però non costituiscono per ora fatto penalmente perseguibile, da noi. Anche se c'erano di mezzo milioni di finanziamenti.
A costo di sembrare ovvio, se hai risultati buoni, anche se non rilevanti, non hai alcun bisogno della frode col fotoritocco. Se è stata usata vuol dire che i risultati non c'erano. Capita. La ricerca oncologica può essere frustrante come poche, e per tenere diritta la rotta devi mettere in opera una serie di pratiche che spesso la ricerca accademica trascura con nonchalance (sequenziare periodicamente le linee cellulari per essere sicuro di quello su cui lavori, validare anticorpi, validare molecular probes etc etc etc),
Chiariamo un punto: questo significa che il prof. Mantovani si è dato al fotoritocco? No, affatto. Probabilmente in più di un caso la sua firma è finita su lavori del suo gruppo che nella migliore delle ipotesi si era limitato a coordinare. A quei livelli si è manager, di fatto, ormai lontani dai banchi e dalle cappe del laboratorio. Ma proprio questa funzione dovrebbe garantire la qualità del lavoro svolto dal tuo gruppo. Avallare o farsi sfuggire frodi piccole o grandi equivale ad esserne direttamente responsabili (cosa che molti tendono a schivare dando la colpa all'assegnista/post doc/ ricercatore a contratto disonesto e infedele).
Poi ad essere molto perfido verrebbe da dire che se comunque ritieni il tuo lavoro irrilevante potresti essere propenso a correre il rischio della falsificazione, perché nessuno andrà a guardarci dentro. Ma se qualcuno poi trova il tuo articolo interessante e ci mette le mani per tirarne fuori qualcosa, beh, il discorso è tutto diverso e le conseguenze non tardano ad arrivare...

PS: "evidenti conflitti d’interesse all’interno di Airc, la cui commissione consultiva scientifica decide sulla destinazione dei finanziamenti (raccolti in prevalenza con il meccanismo del 5 per mille) a favore di studi scientifici condotti dagli stessi componenti": vabbè, un conflitto di interesse in più o in meno... consiglio vivamente di aver a che fare almeno una volta con il comitato scientifico di una di queste associazioni o fondazioni, è un'esperienza edificante.

venerdì 28 settembre 2018

TU VUO FA L'AMERICANO MERICANO MERICANO...

C'è un sapore gelminiano in queste parole (chissà perché). Ma pure rubertiano, volendo. Storie vecchie, anzi, vetuste. Ero all'università quando ho sentito per la prima volta contrapposte "scienza libera" vs "scienza più vicina alle necessità dell'industria".
Il tema richiederebbe un libro intero. Mi limiterò ad alcune considerazioni. "Industrializzare" i dottorati potrebbe aver senso oppure no, ovvero non è criterio generalizzabile, e quindi è da non generalizzare, anche se il senso è chiaro: cercare il finanziamento privato, quando l'unica soluzione decente al problema risorse della ricerca universitaria è ripristinare un livello adeguato di finanziamento pubblico (che significa sforzo finanziario non da poco, data l'abissale inadeguatezza a cui si è giunti).
E' chiaro che il ministro, come tanti altri prima di lui, guarda sognante al modello americano, dove le università brevettano e da brevetti ricavano risorse consistenti.
Ma l'università italiana, nonostante sia massacrata dalle riforme, conserva ancora il suo peculiare vantaggio competitivo, che è costituito dal non pensare all'americana, di non poter essere all'americana.
E di non poter funzionare all'americana. La stagione delle spin off universitarie in Italia è stata un fallimento e sarebbe ora di prenderne atto. Non starò a vivisezionare il fenomeno, ma non c'è stata neanche una frazione appena significativa di spin off che abbia "falto il salto", diventando aziende hi-tech che funzionano con le proprie gambe (come succedeva negli USA). Questo perché in molti fanno molto bene il loro, che è la ricerca di base. Tra la ricerca di base e l'applicazione c'è un gran salto. Quello che lo colmerebbe si chiama ricerca traslazionale, il grande assente di sempre, da noi. E pubblicare brevetti, invece che articoli, per poi lasciarli scadere (pratica comune) non ha senso alcuno (oltre che costituire un costo).
L'altro corno del problema è "la produttività della ricerca": tradurre come "quantità di carta prodotta", non come quantità dei risultati. Le metriche bibliometriche hanno finito per magnificare l'aspetto quantitativo, a livello mondiale. E il sistema italiano non si è sottratto alla tendenza.
Che fare? Forse provare a valorizzare il suddetto "vantaggio comparato" senza insistere ad inseguire modelli altrui che qui non hanno mai funzionato.

PS: Il discorso non vale per Ingegneria, che ovviamente è di suo applicata e applicabile.



martedì 24 luglio 2018

3+2 E CONSEGUENZE INATTESE

Al centro del vortice mi ricordo, come sempre, le metriche stupide. Negli anni novanta era periodico l'allarme sui media riguardo lo scarso numero di laureati in Italia. L'origine dell'allarme, come spesso accade, erano studi OCSE.
Andando indietro nel tempo di un cinque-dieci anni invece mi ricordo che avevamo un problema di allineamento delle qualifiche. La nostra vecchia laurea era più di un master anglosassone, da un punto di vista del contenuto formativo, e meno di un PhD. Veniva allineata ai master, al ribasso, e i nostri dottorati venivano allineati ai PhD (pure se, secondo molti, erano qualcosa di più). All'incirca in quel periodo cominciai a udire i germi di quel paradigma che avrebbe portato alla situazione attuale. Un rettore in un'intervista ad un quotidiano ebbe a dichiarare che una buona università si fa con buoni studenti. Cosa che a me pareva aberrante (da studente): mi pareva scontato che una buona università si facesse con una buona didattica.
Il modello dei tempi, quello dell'ordinamento antico, non prevedeva numero chiuso. Nessuna barriera all'ingresso e selezione basata sugli esami: quindi alto numero di abbandoni e di fuori corso.
Al primo anno dove avevo iniziato il mio percorso universitario eravamo una quarantina di matricole. All'inizio del secondo anno eravamo una ventina. A seguire i corsi del quinto anno eravamo in dieci.
Venticinque anni dopo, tornando brevemente nel luogo di origine, la situazione era cambiata. L'infame combinato disposto di riforma Gelmini e 3+2 aveva provocato conseguenze per me inimmaginabili. Come mi spiegò un vecchio amico, ancora professore associato all'inizio dei suoi cinquanta anni (come tutti gli altri), il sistema puniva con meno risorse gli abbandoni al primo anno. Soluzione: al primo anno non si fa praticamente niente, si comincia a fare sul serio al secondo, e se li seghiamo lì va bene a tutti (molto razionale, vero?). Ma c'era un problema: per gli stessi motivi, biologia, che tradizionalmente ricopriva anche il ruolo di refugium peccatorum della facoltà di scienze, onde evitare maree di iscritti desiderosi di intraprendere il percorso a più bassa energia offerto dalla facoltà (nonché i "rifugiati" provenienti dal secondo anno di altri corsi di laurea), e quindi il rischio di alto abbandono al primo anno, aveva messo il numero chiuso. Conseguenza, chi non passava il test di ingresso si buttava sul corso di laurea meno ostico rimasto a ingresso libero, cioè chimica. E buona parte di costoro non era in grado di superare l'asticella ormai rasoterra degli esami del primo anno a chimica, e abbandonava, provocando un malus per il dipartimento. Soluzione obbligata, numero chiuso a chimica. Roba da ridere, non fosse in realtà dannatamente tragica.

Qual'era il pregio dell'antico/vecchio ordinamento pre Gelmini e pre Berlinguer? La sua democraticità. A nessuno veniva negato l'accesso. Poi stava a lui riuscire a percorrere la strada. E guarda caso era lo stesso sistema che provveddeva adeguatamente alle borse del Diritto allo Studio per studenti meritevoli provenienti da famiglie economicamente disagiate - risorse largamente evaporate negli anni più recenti. In breve, si offrivano pari opportunità di istruzione universitaria.

Il numero chiuso invece è meritocratico solo in apparenza. Scarica l'onere sulla scuola (di cui tutti conosciamo il declino) e sulle famiglie. E' il sistema all'ammericana, dove ricordiamo che l'università pubblica (come la sanità pubblica) è serie C.
Personalmente resto legato alla vecchia concezione delle socialdemocrazie europee (quella che oggi alcuni stigmatizzano come "comunismo"), del tutto opposta alle concezioni dell'attuale PSE. E sarebbe il caso che si spieghi ai giovani cos'è che la politica degli ultimi vent'anni ha scippato loro.
Ah, inoltre da noi il 3+2, che amplificava la tendenza Gelmini verso la trasformazione dell'università in esamificio/diplomificio, alla fine non è riuscito neanche a fare da booster al numero dei laureati: ancora penultimi in Europa  (https://www.ilmessaggero.it/primopiano/scuola_e_universita/eurostat_italia_penultima_laureati_ue-3656318.html). Ma, paradossalmente, ancora esportatori netti di laureati (per dire che nonostante la devastazione riusciamo comunque a sfornare laureati di qualità superiore a quella media internazionale).
I dati dello scorso autunno certificavano il fallimento della riforma.
https://www.roars.it/online/universita-fallita-la-formula-32/

venerdì 20 aprile 2018

CREDIBILITA' E RIPRODUCIBILITA'

(Sunto di un anno di post fb)

Da tempo sui media digitali e non dilaga l'hype su nuove "scoperte" biologiche. In materia di CRISPR, geni collegati a questo o a quello e ad altri temi che sanno di "futuro" pullulano comunicazioni e articoli. Ed è curioso che questa proliferazione avvenga nel corso di una conclamata crisi di riproducibilità, riconosciuta dal 52% degli addetti ai lavori. Nel 70% dei casi i risultati conclamati non sono riproducibili. E quindi se, come dovrebbe essere, la credibilità di un risultato è uguale alla sua riproducibilità, si può rapidamente calcolare il tasso di credibilità del materiale di attualità veicolato dalla cosiddetta divulgazione scientifica massificata: 30%. Scarsino. La retorica del progresso scientifico da quotidiano o tg  si ciba al 70% di fuffa (http://www.nature.com/news/1-500-scientists-lift-the-lid-on-reproducibility-1.19970).
Quando l'articolo di Nature è uscito è stata pioggia sul bagnato. Già,  nel 2012 un gigante biotech aveva guadagnato i titoli di testa con una comunicazione importante.

Diciamolo, quando pigli a riferimento un articolo per impostare un progetto in ambito industriale e il contenuto si rivela non riproducibile girano i cabbasisi a diversa gente.
"In 2012, Amgen researchers made headlines when they declared that they had been unable to reproduce the findings  in 47 of 53 'landmark' cancer papers"
Articoli "landmark", ok? Rutilanti scoperte di nuovi geni o pathway o altro nel campo della biologia del cancro. Non riproducibili 47 articoli su 53. Immagino che nelle sale riunioni della direzione ricerche Amgen si sentisse l'eco del vorticare anche qualche giorno dopo aver fatto il punto della situazione.
Eppure questa prolungata crisi di riproducibilità non corrisponde nel mainstream culturale a una simmetrica crisi di credibilità. Anzi, si persiste in una (quasi) illimitata apertura di credito, moltiplicata dai media tradizionali e digitali, che per quel che riguarda la divulgazione scientifica di questo si alimentano. Arriverà la resa dei conti, con le promesse non mantenute, o l'articolo ritirato, o un negative finding pubblicato. Tutto ciò non avrà eco, e si continuerà a dar voce alla solita percentuale di scoperte a basso tasso di riproducibilità (e quindi di credibilità) (http://www.nature.com/news/biotech-giant-publishes-failures-to-confirm-high-profile-science-1.19269)
E questi sintomi preoccupanti di una situazione globale da noi del tutto ignorati. Anzi, per tipo due anni non si è sentito che dire "peer reviewed", "impact factor" e non da ricercatori universitari (che sarebbe normale), ma da politici, ministri, giornalisti generalisti, attivisti e utenti dei social network.
Del tutto incuranti o ignari che la mitologica "comunità scientifica" da tempo si è resa conto che il sistema dell'editoria scientifica presenta disfunzionalità crescenti.
In una crisi generale delle riviste scientifiche (secondo me in larga parte dovuta al modello "publish or perish" che ormai governa buona parte della ricerca accademica), quella delle riviste biomediche ha suoi tratti peculiari. Se l'allarme di Randy Schekman aveva un carattere generale (https://www.scienzainrete.it/contenuto/articolo/francesco-aiello/randy-schekman-e-tirannia-di-nature/dicembre-2013), come del resto quelli più sopra citati, alcune denuncie riguardano nello specifico  ricerca biomedica e conflitto di interessi (http://www.bmj.com/content/359/bmj.j4619).
In questo quadro compromesso ora anche gli editori ci mettono del proprio (o meglio, ora viene fuori come ce lo mettono, e da un po').
In due parole un fisico americano si è rotto le scatole di avere continue richieste di reviewing da Elsevier su materie che non gli competono, e l'ultima richiesta, che riguardava un'articolo di diabetologia, è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Guarda un po', il caso riguarda una rivista medica
Come può succedere che si incappi in articoli evidentemente risibili, che so, in materia di attivazione di legami CH? Forse i peer reviewers erano un biologo, un economista e un filologo antico... (parafrasando la conclusione dell'articolo del link)

https://forbetterscience.com/2018/01/15/how-elsevier-finds-its-peer-reviewers/

E tutto ciò mentre sui nostri media nazionali (compresi quelli sociali) e nella websfera italiana tutta si andava consolidando l'equazione medicina=Scienza (e vorrei sapere quanti tra matematici fisici e chimici in camera caritatis si sono piegati in due dalle risa), e più grave quella Scienza=Verità. Contraibile in medicina=Verità, che è un autentico abominio. E mentre la struttura di questo credo veniva cementata e consolidata, Il MIUR bocciava senza appello una serie di scuole di specializzazione in medicina (e quindi bocciava i docenti - medici - delle dette scuole, non certo gli studenti).
Non sono un fan delle valutazioni del MIUR, spesso centrate su metriche progettate con criteri discutibili e in fin dei conti funzionali ad un unico scopo (il taglio di spesa).
Ma tra amici avevamo rilevato come le dispense di un certo corso di statistica a Pavia manifestassero un allarmante livello di incuria (per non dire incompetenza). E guarda caso "Statistica sanitaria e Biometria" a Pavia è tra le specializzazioni bocciate. Anche dalle parti del S.Raffaele non erano messi così bene, a quanto pareva. E pure all'Humanitas le cose andavano maluccio (habitat di Mantovani,in vena di rilanciare il vaccino BCG per la TBC dalle nostre parti,stando a quel che scriveva sul Sole).
A proposito del famoso virologo e dei suoi emuli, da notare che più si aggravava la crisi delle discipline biomediche (mettete assime scarsa riproducibilità dei risultati, queste valutazioni ministeriali, il crescente numero di cause per malasanità) più si strepitava per affermare il principio di autorità. In quest'ottica l'invocata non democraticità della "Scienza" acquistava un significato più interessante, perché la supposta congiura degli ignoranti è poca cosa al confronto con i danni procurabili dagli asini in cattedra o col camice, o col bisturi in mano, specie se vicini alle leve del potere politico (riguardo a questo aspetto il risultato elettorale ha cambiato molto tutta la situazione).

http://www.corriere.it/scuola/17_agosto_20/scuole-formazione-medici-una-10-non-regola-b68e0224-85cb-11e7-a4e4-940a5da24d3a.shtml

http://milano.corriere.it/notizie/cronaca/17_ottobre_09/milano-medicina-bocciata-scuola-7-tagliati-33-corsi-privi-qualita-3a2df836-acb0-11e7-a5d5-6f9da1d87929.shtml



CHI SONO? UNO COME TANTI (O POCHI)

Con una laurea in Chimica Industriale (ordinamento ANTICO, come sottolineava un mio collega più giovane) mi sono ritrovato a lavorare in ...