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https://www.panorama.it/attualita/economia/italia-in-bilico-tra-crescita-e-crisi-industriale-a-maggio-produzione-giu-dello-07 |
A questo giro sarà colpa di Trump, ma quando il cambio USD/EUR superò 1.30 nel 2005 (stessa cosa dei dazi al 30%) nessuno pensò di indicare nessuno come il colpevole. Il colpevole era chi non riusciva a reggere.
C'è un diffuso non detto secondo cui le crisi industriali, diventando troppo frequenti, perdono la loro rilevanza mediatica e sociale. Perdono la loro rilevanza per tutti tranne per quelli che le vivono o le hanno vissute e loro famiglie. La famosa vittoria del capitale la dipinse Warren Buffet:
There's class warfare, all right, but it's my class, the rich class, that's making war, and we're winning.
E forse la lotta di classe l'hanno vinta i ricchi perché i ricchi una coscienza di classe ce l'hanno, mentre ormai la classe sconfitta, quella del lavoro, quella dei poveri, una coscienza di classe non la ha più. Come negli anni più violenti e oscuri della rivoluzione industriale.
Il non detto di cui sopra tocca un meccanismo psicologico estremamente profondo che va ben oltre la semplice analisi economica. Il "survival bias" che emerge in questi contesti rappresenta uno dei fenomeni più aberranti e sottovalutati nella percezione pubblica dei disastri sistemici, perché trasforma automaticamente chi è riuscito a sopravvivere in giudice morale di chi invece è stato travolto dagli eventi. Questo meccanismo crea una bieca narrativa che non solo deresponsabilizza completamente il sistema che ha generato la crisi, ma arriva addirittura a colpevolizzare le vittime, trasformando una tragedia collettiva in una serie di fallimenti individuali. Con tutto il peso individuale che ne consegue.
Il fenomeno assume dimensioni ancora più sinistre quando si considera come questa dinamica si autoalimenti attraverso la costruzione di un consenso sociale distorto. Chi è riuscito a mantenere il proprio posto di lavoro, o chi ha cambiato settore prima del collasso, sviluppa inconsciamente la necessità psicologica di giustificare la propria fortuna attraverso una narrazione che attribuisce il successo al merito personale e l'insuccesso all'inadeguatezza altrui. E lasciatemelo dire: da ottimamente sopravvissuto so fin troppo bene che a seconda del contesto il merito conta poco o niente e che c'è invariabilmente una componente casuale o entrano in ballo altri fattori (riguardo al ricollocarsi all'estero il Curriculum Vitae è condizione necessaria ma non sufficiente al buon esito). Non riesco a scordarmi quel che diceva un mio collega: le crisi industriali sono come alluvioni, quello che galleggia sono legno e materiali assai meno nobili.
Il processo di trasferimento della colpa sui non sopravvissuti alla crisi non è solo un meccanismo abietto, ma rappresenta una forma di difesa psicologica che permette ai sopravvissuti di continuare a vivere senza dover affrontare la realtà di quanto il caso e le circostanze sistemiche abbiano influenzato il loro destino.
Il "gia sentito, già visto, poco interessante" applicato a questi temi rivela un aspetto particolarmente cinico del modo in cui l'opinione pubblica e i media gestiscono le crisi prolungate. Quando le crisi industriali diventano troppo frequenti, smettono di essere percepite come eventi eccezionali degni di attenzione e si trasformano in quello che i sociologi chiamano "rumore di fondo" sociale. I media, sempre alla ricerca di novità e di storie che possano catturare l'attenzione del pubblico, perdono gradualmente interesse per vicende che si ripetono con modalità simili ed alta frequenza. L'opinione pubblica, dal canto suo, sviluppa una sorta di assuefazione che la porta a considerare normale quello che in realtà rappresenta un collasso sistemico "E' sempre andata così". Certo, come no, i sommersi e i salvati.
Questo processo di normalizzazione è particolarmente insidioso perché permette alle élite politiche ed economiche di evitare qualsiasi responsabilità per le conseguenze delle loro decisioni. Quando una crisi viene percepita come "normale" o "fisiologica", diventa molto più difficile mobilitare l'opinione pubblica per chiedere cambiamenti strutturali o per identificare i responsabili. La crisi dell'industria farmaceutica italiana tra 2005 e 2010, che in passato ho provato a ricostruire e documentare, per quanto in modo del tutto insufficiente (qui, qui e qui), rappresenta un caso paradigmatico di questo fenomeno: un paio di generazioni di ricercatori e tecnici qualificati sacrificate sull'altare di logiche finanziarie a breve termine del grande capitale, ormai diventate una regola, con lo Stato italiano che restava a guardare, cosa che trenta anni prima non sarebbe successa. E questo sacrificio è stato reso invisibile attraverso la sua graduale normalizzazione: "E' così che funziona", punto, discorso chiuso.
Il parallelo con le crisi bancarie e il caso delle obbligazioni subordinate è dovuto perché mostra come lo stesso meccanismo si riproduca in contesti diversi con modalità sorprendentemente simili. "Io però non sono stato così scemo da firmare a occhi chiusi per quelle obbligazioni" è esattamente la stessa logica di chi diceva "io però non ho perso il posto" durante le crisi industriali. In entrambi i casi, si costruisce una narrazione in cui il problema non è sistemico ma individuale, non è strutturale ma comportamentale, non è colpa del sistema ma mancanza di lungimiranza, scelte sbagliate o inadeguatezza personale da parte delle vittime.
Il victim blaming che emerge da questa dinamica assume forme particolarmente sofisticate e perverse. Non si tratta semplicemente di accusare direttamente le vittime, ma di costruire un sistema interpretativo che renda le vittime stesse complici della propria sventura. Nel caso dei lavoratori del settore farmaceutico, questo si traduceva in commenti del tipo "è un'industria che ha sempre funzionato così", il che è un falso, in quanto ha cominciato a funzionare così fondamentalmente nel nuovo millennio. Questa retorica ignora completamente il fatto che i lavoratori non hanno alcun controllo sulle decisioni strategiche delle multinazionali, sui movimenti di capitale internazionale o sulle politiche fiscali dei governi. Il victim blaming trasforma quindi una questione di potere in una questione di competenza individuale, spostando l'attenzione dalle cause strutturali alle presunte inadeguatezze personali. Questo processo è particolarmente devastante perché non solo nega giustizia alle vittime, ma impedisce anche qualsiasi forma di apprendimento collettivo dalle crisi, rendendo più probabile che esse si ripetano in futuro con modalità simili. Ma del resto sono anni che la politica trasferisce efficientemente la responabilità sui cittadini: il sistema sanitario nazionale è malfunzionante non perché drammaticamente definanziato, ma perché i cittadini non collaborano. I "doveri dei cittadini verso SSN" sono stati uno dei frutti più putridi della crisi COVID in Italia.
Ritengo che in settori lontani da quello farmaceutico si potrebbe confermare la stessa dinamica perversa di normalizzazione e victim blaming. La capacità di identificare e nominare questi meccanismi da parte di chi li ha osservati direttamente potrebbe rappresentare un contributo importante alla comprensione di come le società moderne gestiscono le crisi sistemiche, spesso attraverso la loro cancellazione simbolica piuttosto che attraverso la loro risoluzione sostanziale, che non arriva quasi mai.
Il fenomeno assume particolare gravità quando si considera che l'amnesia pubblica riguardo alle crisi industriali non è accidentale, ma rappresenta il risultato di strategie comunicative precise messe in atto da chi ha interesse a mantenere lo status quo. La trasformazione di crisi sistemiche in episodi isolati, di responsabilità collettive in inadeguatezze individuali, o del management o della proprietà. Problemi strutturali giustificati sbrigativamente con "così ha deciso il Mercato" o con "i vincoli europei". Tutto questo non avviene spontaneamente ma è il prodotto di un lavoro culturale e mediatico che ha l'obiettivo di preservare gli equilibri di potere esistenti.
"I vincoli europei"? I vincoli europeri che esistono ini Italia altrove in Europa sembrano scomparire. Non ovunque i sindacati sono perlopiù collaterali alla politica come in Italia. Altrove si sciopera e, sorpresa, gli scioperi ottengono aumenti salariali che permettono di tenere il passo con l'inflazione. Iniziate a chiedervi: perché non in Italia? Perché?
Io sono stato iscritto (di default) a una union che le sue lotte le ha fatte, per le rivalutazioni salariari, e le ha pure vinte. Chiedetevi perché in Italia non è possibile. Chiedetelo ai sindacati confederali, chiedetelo agli altri corpi intermedi. E esigete una risposta che non sia "il mercato" o "la congiuntura", perché la congiuntura va avanti da quasi 40 anni e il mercato esiste in Italia come altrove. E quanto alle emergenze, beh, hanno riempito gli ultimi 20 anni.
Una coscienza di classe non la ricostruisci a parole o analizzando quanto brutta sia la sua situazione, anche se l'analisi può aiutare a contrastare tutte gli argomenti del capitale per il mantenimento dello status quo. Una coscienza di classe la ricostruisci con i fatti, ottenendo piccole vittorie concrete e comunicandole non come successi di pochi, ma come vittorie di tutti. Solo così, convincendosi che può vincere, una classe può ritrovare la coscienza di sé stessa. E questo è quel che mi auguro che succeda.
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