https://thebattleground.eu/2023/11/21/losing-our-illusions/ |
(ricevo e traduco, NdCS)
Sono cresciuto in una famiglia dell'Italia del nord tra anni '60 e '70.
L'antisemitismo era inconcepibile, e l'essere a favore di Israele, se non indiscutibile, era la posizione che i liberal e le persone civili dovevano prendere. Ho avuto un'educazione cattolica con forti valori secolari, specialmente riguardo la separazione tra Chiesa e Stato. Da bambini entrambi i miei genitori avevano sofferto terribilmente durante l'occupazione tedesca, Avevano assistito all'orrore delle politiche naziste e fasciste, quindi avevano simpatizzato con gli ebrei e il sionismo. Per quanto arrivo a ricordare i libri di Leon Uri Exodus e Mila 18 avevano una posizione di rilievo nella biblioteca di mio padre. Di conseguenza c'era poco interesse o simpatia per il lato arabo del conflitto. Durante la Guerra dei Sei Giorni mio padre era estasiato e mi disse che credeva che Nasser avesse avuto quello che si meritava.
Non era soltanto la nostra famiglia. Per la maggior parte dei nostri amici antisemitismo e non essere a favore di Israele erano colpe gemelle. Questo atteggiamento culminò nel massacro alle Olimpiadi di Monaco del 1972, che ci fecero capire che la causa palestinese era impossibile da sostenere per gente come noi. Sembrava naturale che gente come noi - liberal e istruita - potesse capire i conflitti in Medio Oriente. Solo un fascista avrebbe avuto posizioni diverse. Da allora in poi la questione divenne più indistinta e confusa. I contatti con membri della comunità ebraica, italiani della classe media indistiguibili da noi che non appoggiavano la politica di Israele nei confronti dei palestinesi arrivarono come un notevole shock. Specialmente dopo la guerra in Libano del 1982 e il massacro di Sabra e Shatila.
Con gli imperdonabili orrori della Sukkot War dentro e fuori da Gaza dopo il 7 ottobre oggi capisco che le nostre idee politiche di allora erano parte di una più preoccupante e problematica posizione riguardo la giustificazione della violenza. La violenza reale, vista e sofferta, era stata parte dell'esperienza dei miei genitori durante la seconda guerra ondiale. Discorsi sulla violenza se non comuni erano trattati come fatti della vita, quando ero un ragazzino. Non che la violenza fosse ignorata o perdonata. Ma c'erano la violenza e la violenza antifascista. La violenza antifascista era considerata per quanto terribile inevitabile. La resistenza senza speranza dei combattenti del ghetto di Varsavia contro i torturatori tedeschi era qualcosa da esaltare. Dall'altra parte la violenza degli altri (fascisti e destrorsi) era qualcosa da temere e disprezzare, a qualunque costo.
Queste erano le posizioni, e il discorso non riguardava la violenza ma chi la esercitava. Capii i limiti di questo approccio la prima volta che lessi l'ultimo e più distubante libro di Primo Levi, I sommersi e i salvati, pubblicato poco prima che morisse nel 1987. Levi, che veniva da un background non diverso dal mio, non era un pacifista. Da sopravvissuto all'Olocausto aveva dichiarato più volte, nonostante la sua tragica esperienza con la resistenza armata, che la violenza contro l'oppressione fascista e razzista era giustificabile. Il suo unico romanzo, Se non ora quando?, raccontava delle avventure di un piccolo gruppo di combattenti della resistenza ebraica sul fronte orientale durante la seconda guerra mondiale. Levi capiva il loro bisogno di ricorrere alla brutalità. Però in quel romanzo dell'85 scrisse chiaramente quanto fosse facile per le vittime diventare macellai.
Libro estremamente triste e pessimistico, I sommersi e i salvati espanse questo tema. In una controversa intervista riguardo la guerra in Libano rilasciata a Il Manifesto disse: "Ognuno è l'ebreo di qualcun altro, e oggi i palestinesi sono gli ebrei di Israele". La dichiarazione creò clamore in Italia e all'estero. Ma la critica di Primo Levi riguardo il governo israeliano fu inequivocabile. Come ci si poteva attendere fu largamente frainteso e mal rappresentato, speciemente nell'anglosfera. Il New Yorker, per esempio, attribuì le dichiarazioni di Levi ai "risultati di una depressione e di un disturbo mentale" che avrebbe portato al suo supposto suicidio. Ovviamente erano sciocchezze. Levi era stato prima cautamente poi apertamente contrario alla politica israeliana assai prima del 1982 e aveva ben spiegato le ragioni della sua opposizione. Levi aveva percepito che dagli anni 70 in poi il governo israeliano era stato infiltrato da gente con stretti legami con tendenze fasciste e razziste e che lui detestava fascismo e razzismo in ogni loro forma. Ma come dichiarò in I sommersi e i salvati il suo disgusto per gli assoluti riguardo la violenza era andato moltro oltre. In un famoso passaggio scriveva:
È stato oscenamente detto che di un conflitto c’è bisogno: che il genere
umano non ne può fare a meno. È anche stato detto che i conflitti
locali, le violenze in strada, in fabbrica, negli stadi, sono un
equivalente della guerra generalizzata, e che ce ne preservano, come il
«piccolo male», l’equivalente epilettico, preserva dal grande male. È
stato osservato che mai in Europa erano trascorsi quarantanni senza
guerre: una pace europea cosi lunga sarebbe un’anomalia storica.
Sono argomenti capziosi e sospetti. Satana non è necessario: di guerre e violenze non c’è bisogno, in nessun caso.
Nel 2023, per usare le parole di Levi, la violenza è diventa un osceno luogo comune sempre più accettabile.
La violenza reattiva o preventiva non è soltanto tollerabile, ma anche giustificabile e necessaria. La violenza è diventata normalizzata da un brutale ritorno a ideologie nazionaliste e identitarie. Se la violenza è utile al mio fine posso comunque giustificarla come legittima difesa della mia tribù. Chiunque non sia d'accordo con me è un nemico e un traditore. Questa è la logica. Quindi se non accetti i bombardamenti indiscriminati su Gaza sei antisemita, anche se sei un ebreo cittadino israeliano che vive a Tel Aviv e ha servito nell'IDF. Primo Levi ci aveva avvisato al riguardo e dobbiamo ricordarci il suo dissenso. Il fatto che le sue lezioni morali arivassero da Auschwitz le rende ancora di più preziose. L'Italia del dopoguerra non è mai stata una società che amava la violenza. Due guerre mondiali e il trauma del 1943-1945 avevano reso l'italiano medio sospettoso delle retoriche marziali. Ma neanche l'Italia di oggi può sfuggire alla logica violenta alla base della Sukkot War. La politica italiana è affetta da pulsioni di disumanizzazione di un nemico immaginario, nel caso presente migranti e rifugiati, gli ebrei della destra di oggi. Che l'Italia sia un alleato militare di Israele e guidata da un governo razzista con radici fasciste rende questa comprensione anche più necessaria.
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