giovedì 19 aprile 2018
LA TERIACA
AVVERTENZA: questo post contiene lingue morte in tracce e può causare reazioni avverse.
Quella veneziana è stata forse una delle versioni più note della della teriaca, che ha origini greco antiche ben raccontate nell'articolo qua sotto. Il termine deriva dalla latinizzazione del greco θηριακή.
La teriaca non si limita ad essere archeologia farmaceutica, è un τόπος, anzi, un ἀρχέτυπον. E' l'idea del preparato salvifico, che quindi ha a che fare più con la metafisica che con la fisica, intesa come φυσική , ovvero scienza naturale, inerente la natura sensibile.
L'archetipo della teriaca, in quanto tale, è indistruttibile. La sua ultima incarnazione sembra essere il vaccino (quel vaccino che non è un'opinione) , come categoria farmaceutica - o quasi farmaceutica, visto lo status regolatorio e normativo delle formulazioni vaccinali.
Da questo punto vista è l'esatto contrario di un altro τόπος, comunemente noto con l'espressione inglese "magic bullet". Il proiettile magico, che colpisce solo la causa della malattia e non altro.
Il magic bullet è un τόπος comparso forse per la prima volta con gli antibiotici: l'antibiotico ammazza il batterio, non danneggia te (relativamente facile, visto che il batterio è un procariote e per esempio la sua membrana è decisamente diversa da quella delle tue cellule eucariotiche).
Il magic bullet implica specificità, la teriaca è "one size fits all".
L' incarnazione ( ὑπόστασις) della teriaca è pre-scientifica, regressiva, mentre il magic bullet implica una capacità di discriminare, la decifrazione della complessità.
La ragione del greco antico in questo post su facebook dovrebbe apparire ovvia. Il greco antico ci ha dato (nel senso che ha dato alla cultura occidentale) vocaboli che ancora persistono nelle nostre lingue, altri il cui sfaccettato significato si è perso tramite la traduzione latina, come λόγος, che pure riecheggia in tutte le nostre "logie" e "ology". La mia "line of work" ha invece un nome che viene dall'arabo, الخيمياء, ma tra le tante cose che ci hanno lasciato i greci (tra cui troviamo l'atomismo, anche se Leucippo certo non si immaginava atomi scindibili) ci sono le prescrizioni dei sette saggi, οἱ ἑπτὰ σοϕοί, di cui forse la più importante è γνῶθι σαυτόν. Sulla pagina di SIlvestri appare un intervento che conclude: "(i negazionisti) sono circondati da uno stuolo di seguaci fedeli che li seguono qualsiasi cosa scrivano, anche la piu' falsa e stupida"; forse sarebbe bene dare un occhio ai commenti sotto i post dei propri sodali e "amici". Affinché i supposti "giusti" non si trasformino sempre più in un' immagine speculare dei propri antagonisti .
(Sul link qua sotto un unico appunto: θηρίον significa "bestia", "animale selvatico", non animale velenoso o altrimenti specificato. Ah, a questo proposito, φάρμακον significa sia medicamento che veleno)
http://chifar.unipv.it/museo/Teriaca/Teriaca.htm
mercoledì 18 aprile 2018
CHIMICI E CHIMICI (NEL PHARMA)
La ristrutturazione selvaggia a cui è stata sottoposta l'industria farmaceutica mondiale, che ha cominciato a procedere con un'intensità ben rilevabile all'incirca dal 2005, ha distrutto posti di lavoro ma sopratutto cultura industriale. E proprio quella cultura industriale che, per quanto fallibile e perfettibile, aveva nei decenni messo a punto quel "così si fa" che ha garantito lo sviluppo della maggioranza dei farmaci ad oggi disponibili.
In quei contesti un project manager doveva aver presente il lavoro di tutte le funzioni coinvolte nello sviluppo del prodotto. Ma i chimici con funzioni operative no. Tra il chimico medicinale, impegnato a mettere a punto un farmaco sperimentale, e il chimico di processo, il cui ruolo è metterne a punto la produzione nel modo quanto più possibile economico, sicuro e affidabile, le vedute sono diverse. Lo sforzo del chimico medicinale è nel sintetizzare in qualsiasi modo qualcosa che possa funzionare. L'attività nei saggi biologici e nei modelli animali è tutto. Le quantità che bastano a coprire queste attività sono dell'ordine del grammo, delle decine o centinaia di milligrammi. Se ha successo, la sintesi che ha sviluppato (in realtà il più delle volte è "hanno sviluppato") capita sulla scrivania di un responsabile dello sviluppo chimico (o nella sua email) con note tipo "mezzo chilo il prima possibile per le tossicologie", oppure "scale up e processo produttivo da includere nell'INDA entro quattro mesi"). Costui legge la sintesi e spesso inizia a imprecare: reagenti costosissimi o tossici, volumi di reazione spropositati, solventi incompatibili con l'uso umano negli ultimi passaggi, utilizzo estensivo di tecniche cromatografiche per purificare prodotto e intermedi. Sono stato da entrambe le parti della barricata, e non so qual'è quella più stressante: "non riusciamo ad avere attività nanomolare" o "non riusciamo a cristallizzare il prodotto".
C'è una vecchia storiella al riguardo.
Un giovane chimico che lavora nei laboratori della Farmaceutica X sta sintetizzando tutte le sue variazioni per ottenere un composto migliore di quelli finora realizzati appartenenti a un data classe. A un certo punto gli arriva una telefonata dai piani alti: "X2643 va bene, lo mandiamo avanti, manda la procedura sintetica all'impianto pilota". Lui mette assieme la procedura e la trasmette all'impianto pilota con la posta interna. E poi continua con le sue sintesi, senza pensarci più.
Due mesi dopo gli arriva una telefonata dal responsabile del pilota "Ciao, com'è che isolavi X2643?". Lui va a riguardare sul quaderno di laboratorio e legge "Il solvente viene rimosso evaporando sotto vuoto" "Si, ok, ma il solido come lo recuperavi?" "Grattandolo dalle pareti del pallone con una spatola" "Benissimo, siccome siamo a quel punto, ti dispiace scendere da noi, con una spatola, diciamo lunga quattro metri?".
In quei contesti un project manager doveva aver presente il lavoro di tutte le funzioni coinvolte nello sviluppo del prodotto. Ma i chimici con funzioni operative no. Tra il chimico medicinale, impegnato a mettere a punto un farmaco sperimentale, e il chimico di processo, il cui ruolo è metterne a punto la produzione nel modo quanto più possibile economico, sicuro e affidabile, le vedute sono diverse. Lo sforzo del chimico medicinale è nel sintetizzare in qualsiasi modo qualcosa che possa funzionare. L'attività nei saggi biologici e nei modelli animali è tutto. Le quantità che bastano a coprire queste attività sono dell'ordine del grammo, delle decine o centinaia di milligrammi. Se ha successo, la sintesi che ha sviluppato (in realtà il più delle volte è "hanno sviluppato") capita sulla scrivania di un responsabile dello sviluppo chimico (o nella sua email) con note tipo "mezzo chilo il prima possibile per le tossicologie", oppure "scale up e processo produttivo da includere nell'INDA entro quattro mesi"). Costui legge la sintesi e spesso inizia a imprecare: reagenti costosissimi o tossici, volumi di reazione spropositati, solventi incompatibili con l'uso umano negli ultimi passaggi, utilizzo estensivo di tecniche cromatografiche per purificare prodotto e intermedi. Sono stato da entrambe le parti della barricata, e non so qual'è quella più stressante: "non riusciamo ad avere attività nanomolare" o "non riusciamo a cristallizzare il prodotto".
C'è una vecchia storiella al riguardo.
Un giovane chimico che lavora nei laboratori della Farmaceutica X sta sintetizzando tutte le sue variazioni per ottenere un composto migliore di quelli finora realizzati appartenenti a un data classe. A un certo punto gli arriva una telefonata dai piani alti: "X2643 va bene, lo mandiamo avanti, manda la procedura sintetica all'impianto pilota". Lui mette assieme la procedura e la trasmette all'impianto pilota con la posta interna. E poi continua con le sue sintesi, senza pensarci più.
Due mesi dopo gli arriva una telefonata dal responsabile del pilota "Ciao, com'è che isolavi X2643?". Lui va a riguardare sul quaderno di laboratorio e legge "Il solvente viene rimosso evaporando sotto vuoto" "Si, ok, ma il solido come lo recuperavi?" "Grattandolo dalle pareti del pallone con una spatola" "Benissimo, siccome siamo a quel punto, ti dispiace scendere da noi, con una spatola, diciamo lunga quattro metri?".
ANTIBIOTICI - 1 - PASTA SUL CONIGLIO
L'allevamento intensivo non può fare a meno degli antibiotici, perché nelle condizioni di produzione l'infezione di un soggetto significa avere in un amen un capannone, una vasca, o una zona marina recintata con gli individui infettati dal primo all'ultimo. E quindi, chemoprevenzione: sulfamidici con i conigli, chinolonici col pesce,direttamente nel mangime, ogni giorno (e aggiungerei cloramfenicolo coi crostacei, mentre col pollame si sono usati anche antivirali - secondo qualcuno l'amantadina come antiinfluenzale è durata poco perché specie in Asia veniva usata senza ritegno). Inutile precisare che gli Istituti Zooprofilattici fanno controlli a campione sui residui di questi farmaci negli animali destinati al commercio.
Ma, se poi si finirà per parlare di resistenza, voglio cominciare questa miniserie di post in modo più frivolo, cioè con la pasta sul coniglio.
L'uso caratteristico era con pappardelle, ma pasta corta (tortiglioni o penne) e anche tagliatelle potevano andare. Abbondante battuto di cipolla, sedano, carota, uno spicchio d'aglio anch'esso tritato. Meglio i pelati che la passata di pomodoro, e non doveva essere troppo rosso. E poi chiaramente il coniglio. Fatto a pezzi, per la corretta riuscita del sugo andava usata anche la testa, intera (poi scartata) e soprattutto il fegato. Il fegato, tritato e buttato in pentola assieme al soffritto. Un piatto unico di tradizione campagnola, in un colpo solo hai il sugo per la pasta e la carne per secondo. Aggiungi il contorno e sei a posto. Ho il ricordo vivissimo dell'odore del sugo di coniglio in via di preparazione.
Perché ho parlato al passato? Perché l'ultima volta che ho cucinato questo piatto è stato con un coniglio allevato in casa, artigianale, di chi teneva anche pollaio e orto. Il suo fegato era scuro (color fegato, appunto), sodo, compatto - in una parola, sano.
Mi era capitato tempo prima di provarci con un coniglio preso al supermercato. Era stato confezionato senza testa, e vabbè. Ma il fegato era lì: beige chiaro, di un colore malato. Un fegato spappolato: odore "sbagliato", consistenza molle, si sbriciolava a toccarlo: inutilizzabile.
Un effetto collaterale delle condizioni di allevamento industriale.
Un effetto collaterale frivolo, perché come dicevo l'uso di antibiotici negli allevamenti industriali è indicato tra le cause dell'insorgere di ceppi batterici resistenti agli antibiotici.
Ma, se poi si finirà per parlare di resistenza, voglio cominciare questa miniserie di post in modo più frivolo, cioè con la pasta sul coniglio.
L'uso caratteristico era con pappardelle, ma pasta corta (tortiglioni o penne) e anche tagliatelle potevano andare. Abbondante battuto di cipolla, sedano, carota, uno spicchio d'aglio anch'esso tritato. Meglio i pelati che la passata di pomodoro, e non doveva essere troppo rosso. E poi chiaramente il coniglio. Fatto a pezzi, per la corretta riuscita del sugo andava usata anche la testa, intera (poi scartata) e soprattutto il fegato. Il fegato, tritato e buttato in pentola assieme al soffritto. Un piatto unico di tradizione campagnola, in un colpo solo hai il sugo per la pasta e la carne per secondo. Aggiungi il contorno e sei a posto. Ho il ricordo vivissimo dell'odore del sugo di coniglio in via di preparazione.
Perché ho parlato al passato? Perché l'ultima volta che ho cucinato questo piatto è stato con un coniglio allevato in casa, artigianale, di chi teneva anche pollaio e orto. Il suo fegato era scuro (color fegato, appunto), sodo, compatto - in una parola, sano.
Mi era capitato tempo prima di provarci con un coniglio preso al supermercato. Era stato confezionato senza testa, e vabbè. Ma il fegato era lì: beige chiaro, di un colore malato. Un fegato spappolato: odore "sbagliato", consistenza molle, si sbriciolava a toccarlo: inutilizzabile.
Un effetto collaterale delle condizioni di allevamento industriale.
Un effetto collaterale frivolo, perché come dicevo l'uso di antibiotici negli allevamenti industriali è indicato tra le cause dell'insorgere di ceppi batterici resistenti agli antibiotici.
martedì 17 aprile 2018
DURO O MORBIDO? DOVE NON SI PARLA DI TORRONE, MA DI MODELLI
(Post ostico e con trattazione matematica, che piacerà ai soliti e molto meno a tutti gli altri, ma contiene elementi concettuali importanti)
Prendiamo una classica reazione con cinetica del primo ordine:
N2O5(g) ⇄ N2O4(g) + ½ O2(g)
Per praticità chiamiamo A la concentrazione (in realtà una pressione parziale) di N2O5(g) . La velocità di reazione (la velocità di scomparsa di A) può essere scritta come -dA/dt, dove t è il tempo, e sarà:
-dA/dt=kA
Dove k è la costante cinetica per questa reazione. k incorpora la dipendenza della velocità di reazione dalla temperatura. E' una costante a temperatura costante, ma della temperatura è funzione: k=Ae^(-Ea/RT), e notare bene che qui A è il fattore preesponenziale, e non ha a che fare con la concentrazione A che abbiamo usato nell'equazione cinetica. Ea è l'energia di attivazione, R la costante dei gas, T la temperatura. Ma noi lavoriamo sull'equazione cinetica a temperatura costante, quindi esplicitare k non serve.
Integrando l'equazione differenziale avrò A=A°e^(-kt), dove A° è la concentrazione iniziale di N2O5(g). Se andrò a misurare la concentrazione di N2O5 nel tempo, troverò valori che staranno sul grafico di questa curva esponenziale negativa.
Quindi, se per una qualche reazione chimica ipotizzo correttamente una cinetica di primo ordine (o pseudo primo ordine) potrò "fittare" i miei dati con un'esponenziale, anzi, per farla più facile posso passare ai logaritmi naturali e fittarli con una retta, ovvero trovare un valore di k per cui la distanza tra i punti sperimentali e la retta è minima (perché i punti non stanno esattamente sulla retta? A causa dell'errore sperimentale).
In generale se prendiamo i nostri punti sperimentali possiamo verificare secondo alcuni criteri l'ordine della cinetica di reazione, e quindi con quale tipo di funzione fittare i punti.
E questo è un modello "hard", ovvero io "impongo" questo modello sui dati sulla base delle mie conoscenze sul fenomeno.
Nella sintesi chimica i modelli hard hanno una caratteristica: funzionano bene per sistemi relativamente semplici, ma possono essere una perdita di tempo per sistemi molto complicati. E ci sono moltissimi casi in cui sappiamo quali possano essere le variabili che giocano nel comportamento del processo, ma non abbiamo nessuna idea di quale sia il loro peso, di come e quanto contribuiscano. E allora che si fa? Si passa ai modelli soft. Visto che non ho un modello funzionale da "imporre" ai miei dati, lascio che sia l'analisi dei dati stessi a suggerire un qualsiasi modello.
Facciamo un esempio abbastanza standard. A+B danno C+D, la reazione è catalizzata da un acido ed essendo la reazione esotermica (ovvero sviluppa calore), viene effettuata in semicontinuo, cioè aggiungendo ad una certa velocità B ad A. Non ci interessa individuare con esattezza quali sono i meccanismi coinvolti, ci interessa massimizzare la resa in C. Che si fa? L'approccio classico è cominciare a variare una grandezza alla volta per ricavare quale influenza ha sui risultati. Abbastanza lungo, macchinoso, assolutamente non pratico, dato che le variabili sono quantità totali di A e B, quantità del solvente, dell'acido, temperatura, velocità di aggiunta di B.
Ma d'altra parte è ragionevole pensare che la mia resa in C, che chiamerò y, sia una funzione di un qualche tipo di tutte le variabili elencate (che chiameremo xi con i che va da 1 a n):
y=f(x1, x2, .... xn) + e (dove e è un parametro).
Questa funzione può essere espressa da una serie di Taylor (https://it.wikipedia.org/wiki/Serie_di_Taylor), e verrà fuori:
y= β°+ β1 x1+ β2 x2+...+ β1,2 x1x2+...+ β1,1 x1^2+... + βn,n xn^2+...+ R(x)+e
(i termini β corrispondono a derivate)
Visto che per la maggior parte delle applicazioni chimiche basta arrivare ai termini quadratici della serie, si può eliminare R(x) in quanto trascurabile e senza avere nessun tipo di idea su come i vari meccanismi del processo contribuiscono a y abbiamo comunque un "attrezzo generico" da utilizzare per trattare i nostri dati sperimentali. Vi risparmio l'algebra matriciale, ma in questo modo è possibile un approccio multivariato: invece che cambiare il valore di una variabile alla volta, posso cambiare più variabili contemporaneamente in una sequenza di combinazioni che mi rende possibile con un numero limitato di esperimenti ottenere i valori di βn. Verrà fuori che di tutti i termini della serie alcuni avranno β trascurabile, e quindi saranno ininfluenti, mentre altri costituiranno contributi più o meno importanti a y (ovviamente otterrò valori di β validi entro gli estremi dei dati sperimentali, non estendibili al di fuori di questo spazio). In questo modo posso capire quali sono le variabili che veramente giocano nel processo, perché quelle xn sono quantità iniziali, velocità di aggunta, etc.
Non ho "proiettato" nessuna teoria sui dati, mi sono limitato a osservarne e ad analizzarne il comportamento. Questo è l'approccio del Design Of Experiments, e se dovessimo applicarlo alla prima reazione di questo post, otterremmo risultati coerenti con una cinetica del primo ordine.
EPATITE C: LO SVILUPPO DEGLI INIBITORI DI NS3/4A (LA COSTRUZIONE DELLA CATTEDRALE)
"Macrociclizzazione.
Esperimenti di risonanza magnetica nucleare avevano indicato che i peptidi di questa serie si distendevano in una configurazione ben definita (P1-P4), e che le catene laterali P3 e P1 stavano in prossimità l'una dell'altra (si parla del complesso legante-proteina, NdCS). Fu ipotizzato che la penalità entropica della complessazione con la proteasi potesse essere ridotta prearrangiandando la conformazione biologicamente attiva. Quindi le catene laterali P3 e P1 vennero connesse, creando un inibitore macrociclico."
E di nuovo notate che ciluprevir fu mollato a causa della sua tossicità in vivo. Ma ha funzionato da proof of concept. L'invenzione dell'inibitore macrociclico avvenne in Boheringer, dove erano partiti dagli inibitori non ciclizzati (sviluppati da Merck e Vertex) .Altri, in altre aziende, partirono dal macrociclo Boheringer, e nel gioco delle lead optimization alla fine, come abbiamo visto, AbbVie ha avuto la meglio con Mavyret.
L'analogia con la costruzione di una cattedrale gotica è abbastanza calzante, solo che qua (come in tante altre storie della chimica medicinale) il progetto finale veniva definito dalle singole intuizioni raggiunte e dai singoli dettagli realizzati in corso d'opera. E come spesso succede, alla fine, non è stata premiata l'intuizione chiave, ma la molecola che meglio si è comportata nell'uomo (cosa assolutamente imprevedebile a priori). Il che dimostra, ancora una volta, che quanti parlano di farmaci "me too", o di "conoscenze di pubblico dominio usate per profitti industriali" non sanno quel che dicono: in questo campo un atomo di carbonio in più, o in meno, nel punto giusto, può fare una differenza immensa.
Gli "skilled in the art" avranno piacere a leggersi la storia dall'inizio alla fine nella review del link.
https://www.diva-portal.org/smash/get/diva2:787019/FULLTEXT01.pdf
Esperimenti di risonanza magnetica nucleare avevano indicato che i peptidi di questa serie si distendevano in una configurazione ben definita (P1-P4), e che le catene laterali P3 e P1 stavano in prossimità l'una dell'altra (si parla del complesso legante-proteina, NdCS). Fu ipotizzato che la penalità entropica della complessazione con la proteasi potesse essere ridotta prearrangiandando la conformazione biologicamente attiva. Quindi le catene laterali P3 e P1 vennero connesse, creando un inibitore macrociclico."
E di nuovo notate che ciluprevir fu mollato a causa della sua tossicità in vivo. Ma ha funzionato da proof of concept. L'invenzione dell'inibitore macrociclico avvenne in Boheringer, dove erano partiti dagli inibitori non ciclizzati (sviluppati da Merck e Vertex) .Altri, in altre aziende, partirono dal macrociclo Boheringer, e nel gioco delle lead optimization alla fine, come abbiamo visto, AbbVie ha avuto la meglio con Mavyret.
L'analogia con la costruzione di una cattedrale gotica è abbastanza calzante, solo che qua (come in tante altre storie della chimica medicinale) il progetto finale veniva definito dalle singole intuizioni raggiunte e dai singoli dettagli realizzati in corso d'opera. E come spesso succede, alla fine, non è stata premiata l'intuizione chiave, ma la molecola che meglio si è comportata nell'uomo (cosa assolutamente imprevedebile a priori). Il che dimostra, ancora una volta, che quanti parlano di farmaci "me too", o di "conoscenze di pubblico dominio usate per profitti industriali" non sanno quel che dicono: in questo campo un atomo di carbonio in più, o in meno, nel punto giusto, può fare una differenza immensa.
Gli "skilled in the art" avranno piacere a leggersi la storia dall'inizio alla fine nella review del link.
https://www.diva-portal.org/smash/get/diva2:787019/FULLTEXT01.pdf
Detto ciò, una nota. Il drug development è in generale un campo multisciplinare, dove sono coinvolte chimica, biologia e medicina. Se dei biologi non avessero individuato, purificato e messo su saggi di inibizione di NS3/4A, i chimici non avrebbero avuto un bersaglio, né mezzi per valutare il proprio lavoro, cioè l'attività di quel che veniva sintetizzato. Senza ricercatori clinici non si sarebbe trovato il dosaggio ottimale e quindi il risultato dei trial clinici. Quindi tra i costruttori della cattedrale ci sono anche biologi e medici.
lunedì 16 aprile 2018
DIETA E TUMORI - POLIFENOLI DEL TE' VERDE
E' ovvio che pensare di curare questo o quel tumore con la dieta sia idiota (e che proporlo sia criminale). Da qui a liquidare l'argomento alimenti chemoprotettivi scagliandosi contro chiunque lo affronti (se pur in modo improprio) o per esempio faccia un nome ("curcuma", tipicamente) ce ne corre.
"The medicinal chemistry of Anticancer Drugs" (C.Avendano, J.C. Menendez, Elsevier, 2008) ha l'ultimo capitolo dedicato al controverso tema della chemoprevenzione, che però include anche esempi tutt'altro che controversi di chemoprotettivi presenti in alcuni cibi. Cominciamo dal tè verde:
"I polifenoli del tè verde (epicatechina gallato e epigallocatechina gallato, p.e.) sono potenti scavenger di radicali che sono stati estensivamente studiati come agenti chemopreventivi. In questo caso la stabilizzazione del radicale fenolico è dovuta all'estensiva delocalizzazione dell'elettrone spaiato sull'anello aromatico e sul sostituente p-acilico, e anche all'ingombro sterico dei vicini ossidrili. Uno studio clinico di fase due ha studiato la modulazione da parte di queste sostanze dell'escrezione urinaria di 8-idrossideossiguanosina (8-OHdG), un biomarker del danno ossidativo del DNA. I risultati ottenuti suggeriscono che la chemoprevenzione con polifenoli del tè verde sia efficace nel diminuire il danno ossidativo al DNA."
CONTI SBALLATI E BALLE SEMPLICI (vaccini e aspirina)
L'epidemiologo organico si getta contro la campagna su reazioni avverse e segnalazioni. (https://www.facebook.com/PLopalcoPublic/posts/513921238990304)
E con buona ragione, 21.658 reazioni avverse segnalate nel biennio 2014-2015 non ci sono. Ma non ci sono neanche le 12.645 che dice il professore. Tabella pagina 31 del report nella forma breve: Vaccini Batterici, 2271 segnalazioni nel '14, 2282 nel '15; Vaccini Virali, 8549 segnalazioni nel '14, 1586 segnalazioni nel '15. Totale: 14.688.
Altro particolare non trascurabile: "Comunque aspirina e tachipirina producono più segnalazioni di qualsiasi singolo vaccino", dice l'epidemiologo. Mah. Fermo restando che AIFA raccoglie più segnalazioni su farmaci che su vaccini (e il discorso segnalazioni andrebbe approfondito, e non poco), sullo stesso rapporto, alla stessa pagina, stessa tabella, si registrano per i vaccini morbillosi 5.217 segnalazioni nel '14, 596 nel '15. Per la tachipirina invece dal 2002 ad oggi sono state registrate 3.415 segnalazioni, in Italia. Dal 2002 ad oggi (Fonte: Eudravigilance, ultima release). Ah, per l'aspirina 8.363 segnalazioni in Italia. Sempre dal 2002 a oggi. Stessa fonte. Il solo consumo di cardioaspirina, per dare un'idea, è di circa dieci milioni di compresse all'anno. Quindi, minor numero di segnazioni a fronte di maggior consumo/somministrazione.
E con buona ragione, 21.658 reazioni avverse segnalate nel biennio 2014-2015 non ci sono. Ma non ci sono neanche le 12.645 che dice il professore. Tabella pagina 31 del report nella forma breve: Vaccini Batterici, 2271 segnalazioni nel '14, 2282 nel '15; Vaccini Virali, 8549 segnalazioni nel '14, 1586 segnalazioni nel '15. Totale: 14.688.
Altro particolare non trascurabile: "Comunque aspirina e tachipirina producono più segnalazioni di qualsiasi singolo vaccino", dice l'epidemiologo. Mah. Fermo restando che AIFA raccoglie più segnalazioni su farmaci che su vaccini (e il discorso segnalazioni andrebbe approfondito, e non poco), sullo stesso rapporto, alla stessa pagina, stessa tabella, si registrano per i vaccini morbillosi 5.217 segnalazioni nel '14, 596 nel '15. Per la tachipirina invece dal 2002 ad oggi sono state registrate 3.415 segnalazioni, in Italia. Dal 2002 ad oggi (Fonte: Eudravigilance, ultima release). Ah, per l'aspirina 8.363 segnalazioni in Italia. Sempre dal 2002 a oggi. Stessa fonte. Il solo consumo di cardioaspirina, per dare un'idea, è di circa dieci milioni di compresse all'anno. Quindi, minor numero di segnazioni a fronte di maggior consumo/somministrazione.
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CHI SONO? UNO COME TANTI (O POCHI)
Con una laurea in Chimica Industriale (ordinamento ANTICO, come sottolineava un mio collega più giovane) mi sono ritrovato a lavorare in ...
