martedì 10 luglio 2018

L'INCIDENTE DI SEVESO (E IL CONTESTO)

La chimica organica industriale degli anni 60 e 70 in Italia non era precisamente "state of the art process chemistry".
C'era una questione di cultura industriale: relativamente pochi laureati, più periti, tanti operai specializzati. Il know how necessario era spesso acquisito tramite consulenze universitarie, ma ho sentito raccontare di contesti in cui a fare il Direttore Tecnico c'era un ragionere cresciuto dentro l'azienda (ancora nei primi anni novanta il responsabile dell'impianto pilota di una chimica farmaceutica non delle meno note era un perito, che sosteneva che i laureati non servivano, in quanto  aveva visto un buon numero di chimici organici arrivare in azienda e non riuscire a portare sull'impianto neanche un prodotto nell'arco di un anno - capirai, un chimico puro di indirizzo organico non aveva la minima idea di cosa potesse essere un impianto, figurati portarci sopra una sintesi da 0 appena uscito dall'università).
Di storie balorde degli "anni ruggenti" ne ho sentite davvero tante, ma l'incidente di Seveso del 1976 ha avuto il dubbio onore di diventare un caso di scuola di importanza storica e mondiale nel campo "sicurezza degli impianti chimici".
Il 10 luglio 1976 circa alle 12.30 si verificò nello stabilimento ICMESA l'incidente che provocò il rilascio nell'atmosfera di 1 kg di TCDD (tetraclorodibenzodiossina) (qualcuno ha scritto 13 kg, che sembra decisamente eccessivo). L'effetto acuto fu costituito da 200 casi di cloracne. Ma peggio fu il risultato a lungo termine, con un aumento di casi di mieloma multiplo e leucemia mieloide.

Perché successe? La lavorazione, da quel che ho potuto ricostruire, avveniva in un semitubo di acciaio da 500 l (quindi un reattore piccolo). Ovvero un reattore con una serpentina di semitubo saldata a spirale lungo le pareti, in cui si fa passare il mezzo di scambio termico. La reazione che vi veniva fatta era la sintesi del triclorofenolo da tetraclorobenzene e soda, in glicole etilenico, con il reattore riempito per quattro quinti. La miscela bolliva a 160°C, e la temperatura interna di reazione erano 158°C. Data l'alta temperatura, per scaldare serviva vapore ad alta pressione (o olio diatermico, ma evidentemente non era un servizio disponibile sull'impianto). E presero quello esaurito dalla turbina della centrale elettrica del sito, che usciva a 12 atm (190°C). Ma senza mettere un controllo su temperatura o pressione del vapore in ingresso alla serpentinadel reattore.
Primo punto: venne cominciata una produzione di venerdì, quando il venerdì sera tutto l'impianto doveva essere fermato per il week end. Mentre tutte le altre macchine venivano vuotate e fermate, quel 500 litri continuava a lavorare, ritrovandosi per un breve tempo ad essere scaldato da vapore più caldo del solito (circa 300°C).
Secondo punto: non so se fossero le direttive che imponevano comunque di lasciare spente tutte le macchine, non so se fu l'operatore a farlo senza pensarci. Fatto sta che l'operatore non raffreddò, chiuse il vapore (quindi smise di riscaldare, nella sua testa), fermò l'agitazione (questa è una cosa che a voi non dirà niente, ma quando ho visto gente fermare l'agitazione a reattori pieni ho sempre dato in escandescenze - un reattore deve avere buono scambio termico e buona agitazione, in primo luogo, e un motivo c'è).
Lo spegnimento dell'agitazione fu la prima causa. La parete del reattore sopra il livello del liquido era rimasta sopra i 250°C. In assenza di agitazione cominciò a surriscaldare la parte superiore della massa liquida, facendo partire localmente una reazione parassita inizialmente lenta ma esotermica. Sette ore dopo l'esotermia aveva progressivamente riscaldato la massa reagente, arrivando  a 250°C di temperatura interna, innescando una runaway (prima o poi spiegherò la cosa), con forte e veloce aumento della pressione interna. Il reattore era dotato di un disco di scoppio, ovvero di un dispositivo tarato per il rilascio di pressione oltre un certo limite. E questa era una cosa buona. Ma l'uscita del disco di scoppio non era convogliata a nessun sistema di contenimento (classicamente una vasca). Il disco di scoppio era en plein air. E nell'aria rilascio i 400 kg di massa reagente, liquida,spinta dalla pressione dei vapori, comprensiva del famoso chilo di TCDD.
Quindi, riepilogando, nessun controllo su pressione o temperatura del vapore, fermo dell'agitazione, disco di scoppio all'aria: la ricetta di un disastro storico.
(Nell'immagine un disco di scoppio)

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