In tempi ormai lontani appena laureato andai a trovare il mio relatore e lui mi chiese "Cosa vuoi fare da grande?". "Non restare all'università", risposi. Due anni di dottorato a 700.000 lire al mese, e poi destreggiarsi tra assegni di ricerca e simili nell'attesa di un posto da ricercatore? Non era roba per me (con ciò il mio relatore, che era un signore, mi trovò un contratto a termine con un ente pubblico con cui "passare il tempo" prima del servizio civile). Quelli che fecero la scelta opposta alla mia, al tempo, si sono ritrovati carriere arenate: chi è rimasto ricercatore, chi si è fermato a professore associato (Meglio che ritrovarsi carriere spezzate, comunque, come è successo a tanti nell'industria). E la mia è stata ancora ancora una generazione "fortunata". Oggi la ricerca accademica in occidente si regge su basi precarizzate all'osso.
L'articolo è da leggere.
Un' unica ulteriore considerazione: possibile che una buona fetta dei concorrenti in questa rat race sia impegnata a lodare il sistema rappresentandolo come quella irrealistica cosa scintillante? (ovviamente ci sono eccezioni notevoli, e mi riferisco in primis al dottor Rob, oltre che all'autore di questo pezzo https://solounaltropostdoc.wordpress.com/).
PS. Derek Lowe ha commentato la vicenda della Arnold da par suo (https://blogs.sciencemag.org/pipeline/archives/2020/01/03/a-very-public-retraction-good), e una frase del suo pezzo è particolarmente significativa, e fa capire perché lo stile di chi viene dall'industria è un po' diverso di quello di chi viene dall'accademia: "Non ragioniamo di fama o autorità, in questo business, ragioniamo di riproducibilità dei risultati" .
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