martedì 22 settembre 2020

PANDEMIC SHOW



Di numeri e corpi, si direbbe.
Interessante pezzo di Francesca Capelli su PDO. Leggendolo mi è parso che alla fine la famosa premessa di Guy Debord si sia finalmente realizzata in toto:
"L'intera vita delle società, in cui dominano le moderne condizioni di produzione, si annuncia come un immenso accumulo di spettacoli. Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione." (La società dello spettacolo).
Come nei "migliori tempi" della campagna di vaccine advocacy del 2017, il disease mongering ha riempito i media e la rete, con pazienti intubati, volti mascherinati, volti scavati da occhiali e maschera, in parallelo ai numeri (positivi, ricoveri, terapie intensive). Il morbillo 2017 come grande prova generale.
Ironico che la memoria della rete, quanto a spettacolarizzazione del virus, ci ricordi che a gennaio era un cavallo di battaglia della lotta all'allarmismo, molto ironico (https://www.wired.it/attualita/media/2020/01/31/coronavirus-media-italiani-spettacolarizzazione/?refresh_ce=).
A Debord l'infermiera sul red carpet sarebbe piaciuta molto. "Ecco, avete visto?" avrebbe detto.
 

DA ZOOM ALLA TERAPIA INTENSIVA, DAL CARBONIO AL QUARZO,
LA RAPPRESENTAZIONE DEL CORPO AL TEMPO DEL COVID

di Francesca Capelli
Sociologa, ricercatrice, giornalista
Università del Salvador, Buenos Aires

Il corpo della virtualità è un corpo-quarzo, smaterializzato, che esiste solo grazie alla tecnologia. Al corpo-quarzo corrisponde lo svuotamento dello spazio pubblico. La socializzazione e la socialità si spostano dai luoghi fisici che abbiamo conosciuto finora a piattaforme virtuali.
Il corpo fisico, invece, è il corpo-carbonio. Anch’esso è funzionale a una narrazione, che lo trasforma – letteralmente – in “carne da macello”. Come i malati ricoverati in terapia intensiva, mostrati nudi e intubati in televisione, a scopo pedagogico, come monito per la categoria dei cattivi di turno...


È il 9 marzo quando Alessia Bonari, 23 anni, infermiera in un ospedale di Milano, pubblica su Facebook la foto del proprio viso a fine turno, segnato da occhiali e mascherina, per rendere visibile la fatica del lavoro di medici, infermieri e ausiliari impegnati a curare i malati di Covid.

Il 5 settembre, il corpo di Alessia Bonari torna visibile per un giorno, questa volta sul red carpet del festival di Venezia, invitata a ritirare – in quanto infermiera “simbolo” della lotta contro il Covid – il premio “Personaggio dell’anno”. Ora è truccata, pettinata, vestita da uno sponsor. La pelle è tornata liscia e luminosa. Sui social non tardano i commenti alle nuove foto, tutte manifestazioni di affetto e di stima. C’è chi scrive “Finalmente una persona degna di calcare il red carpet”, frase su cui si potrebbe scrivere una tesi di dottorato per le sue implicazioni di senso, a testimonianza della marmellata semiotica nella quale siamo immersi da mesi.

Alessia Bonari è tornata al lavoro in ospedale, per ora, ma questa piccola storia è un punto di partenza per descrivere e analizzare il ruolo del corpo nella produzione di simboli e nelle attribuzioni di senso legate alla pandemia.
È innegabile che il corpo sia uno dei protagonisti della narrazione visuale di questi mesi. Rinchiuso, negato, limitato, colpevolizzato, esposto, ostentato. Assente o appiattito alla bidimensionalità di uno schermo, sofferente in un letto di ospedale, eroico nelle corsie a curare i malati, ribelle davanti alle limitazioni a cui viene sottoposto (e sarebbe il caso di cominciare a smettere di considerare “nuova normalità” l’esperienza di chi, vivendo solo, si è trovato per mesi a non essere toccato da nessuno).

Il corpo, insomma, come rappresentazione, così come la intende Carlo Ginzburg nel saggio “Rappresentazione: la parola, l’idea la cosa” pubblicato in quella splendida raccolta che è “Occhiacci di legno” (Quodlibet).
Il concetto di rappresentazione è ambiguo. È qualcosa che sta al posto di un’altra realtà, quindi evoca un’assenza, ma è anche ciò che rende visibile quella stessa realtà, quindi suggerisce una presenza.

Il termine francese “représentation” si riferisce a tavolette di legno o cera, usate nel Medio Evo in Francia e in Inghilterra ai funerali dei re, dei quali portavano l’effigie. Venivano messe sul catafalco del sovrano e ne ricordavano il doppio corpo: quello fisico, destinato alla polvere, e quello politico, immortale, non per motivi religiosi, ma perché legato alla sopravvivenza dell’istituzione.

L’esperienza della virtualità di questi mesi ci rimanda a questo concetto di rappresentazione. L’immagine di una persona cara sullo schermo (imago è chiamata anche la maschera funeraria di cera), l’incontro su Zoom, l’illusione della presenza che si infrange appena l’audio si fa gracchiante, l’immagine si blocca, l’espressione si congela, il viso si pixellizza.

Il corpo – che è volume – si ritrova appiattito alla bidimensionalità, prigioniero di una lastra di vetro, come i tre traditori di Krypton condannati da Marlon Brando, nella scena iniziale di “Superman”, alla prigionia nella Zona Fantasma, una dimensione parallela dalla quale non è più possibile uscire.
Il corpo della virtualità è un corpo-quarzo, smaterializzato, che esiste solo grazie alla tecnologia. Che richiama la presenza dell’altro e ne ribadisce l’ineluttabile assenza.

Al corpo-quarzo corrisponde lo svuotamento dello spazio pubblico. La socializzazione e la socialità che, come scrive Simmel, ne è la soglia, si spostano dai luoghi fisici che abbiamo conosciuto finora (la parrocchia, la palestra, il circolo Arci, la bocciofila, l’ufficio, il cinema, il teatro, la scuola e l’università…) a piattaforme virtuali.

Le città stesse corrono il rischio di trasformarsi in luoghi non più “abitati”, ma “attraversati” da persone che anziché “vivere” quegli spazi, li “percorrono” per transitare da un luogo all’altro.
Una prospettiva per certi aspetti rassicurante, per quanto distopica. Nell’immaginario di un mondo sterile e sterilizzato, dove i contatti sono aboliti, eccetto quelli mediati da uno schermo, spariscono anche le infezioni. “Il virus smette di circolare”: ripetuto come un mantra o un esorcismo. �Le malattie, semmai, si limitano a errori di trascrizione, “sono ‘soltanto’ le minuscole variazioni di codice di un antigene del sistema immunitario, ‘soltanto’ l’esperienza dello stress”, come scrive Donna Haraway nel suo “Manifesto Cyborg”, da leggere ovviamente in senso metaforico.
Cambiamenti che coinvolgono persino la sfera sessuale, con i virologi che consigliano la masturbazione, il sexting, i rapporti protetti (nel senso della mascherina) e la loro durata.

Che spazio ha, in questa ormai famigerata “nuova normalità”, il corpo fisico, il corpo-carbonio?
Anch’esso è funzionale a una narrazione, che lo trasforma – letteralmente – in “carne da macello”. Come i malati ricoverati in terapia intensiva, mostrati nudi e intubati in televisione, a scopo pedagogico, come monito per la categoria dei cattivi di turno, in una messa in scena a metà strada tra il teatro anatomico e la testa del ribelle giustiziato sulla porta d’ingresso della città.
“Se qualcuno si lamenta perché non può correre, lo porto in un reparto di terapia intensiva così capisce al volo” (www.la7.it/…/coronavirus-il-tuono-di-stefano-bonaccini-se-q…), aveva minacciato il 20 marzo il presidente dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini, come se il desiderio fosse una categoria cognitiva, anziché afferente a strutture cerebrali diverse da quelle legate alla comprensione razionale. Come se fosse l’annullamento del desiderio l’obiettivo a cui puntare e non, semplicemente, l’aderenza dei cittadini a determinate regole di comportamento.

Poi c’è il corpo martoriato di medici e infermieri, da ostendere come la Sindone o una reliquia, a testimonianza di un sacrificio. I visi segnati, le occhiaie, i capelli sudati appiccicati alla testa e al viso, le screpolature alle mani come se fossero stigmate. Foto pubblicate dai giornali, postate sui social, condivide e ricondivise, accompagnate da racconti che ricalcano le stazioni della via crucis. Ecce Homo. �Per poi stupirsi quando ci si accorge che le metafore si usurano e che immagini di quel tipo, postate a luglio, non sortiscono gli stessi effetti che a marzo. E anziché empatia, suscitano reazioni spazientite o di rifiuto.

Per questo ci ha fatto piacere vedere Alessia Bonari riappropriarsi del suo corpo sul red carpet di Venezia, farne di nuovo una fonte di piacere e autogratificazione. E ci piacerebbe ancora di più vederla liberata dal peso dell’essere “simbolo del Covid”, che appiattisce la soggettività e impedisce di osservare la complessità delle persone e delle vicende, fatte di luci e ombre.
E quanto a noi, potrà il corpo-quarzo integrarsi di nuovo nel corpo-carbonio? Ci sentiamo catapultati a “Flatlandia”, il mondo fantastico creato da Edwin Abbot Abbot per farne una satira sulla società vittoriana. Un universo bidimensionale popolato da segmenti, triangoli, poligoni e cerchi. Il protagonista di “Flatlandia”, un quadrato, incontra una sfera di Spacelandia, che gli rivela l’esistenza di un mondo tridimensionale, scoperta davanti alla quale reagisce incredulo. Ma quando anche alla sfera viene paventata la possibilità di universi con quattro o più dimensioni, reagirà con la stessa rigidità del quadrato. Come se la soluzione all’incognito sia non-vivere e l’unica morale generatrice di senso il sovradattamento, scambiato per resilienza.

Bibliografia
Abbott Abbott, E.; (1882, 1966). “Flatlandia”, Milano: Adelphi.
Davies, M.; (2008). “Città di quarzo”, Castel S. Pietro Romano: Manifestolibri.
Deleuze, G.; (2009). “Foucault”, Napoli: Cronopio.
Ginzburg, C. (2019). “Occhiacci di legno – Dieci riflessioni sulla distanza”, Macerata: Quodlibet. Haraway, D.; (1995), “Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo”, Milano: Feltrinelli.
Simmel, G.; (1903, 1995). “Le metropoli e la vita dello spirito”, Roma: Armando.

(https://www.facebook.com/pillolediottimismo/posts/177817910625355)

 

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