DA ZOOM ALLA TERAPIA INTENSIVA, DAL CARBONIO AL QUARZO,
LA RAPPRESENTAZIONE DEL CORPO AL TEMPO DEL COVID
di Francesca Capelli
Sociologa, ricercatrice, giornalista
Università del Salvador, Buenos Aires
Il corpo della virtualità è un corpo-quarzo, smaterializzato, che
esiste solo grazie alla tecnologia. Al corpo-quarzo corrisponde lo
svuotamento dello spazio pubblico. La socializzazione e la socialità si
spostano dai luoghi fisici che abbiamo conosciuto finora a piattaforme
virtuali.
Il corpo fisico, invece, è il corpo-carbonio. Anch’esso è
funzionale a una narrazione, che lo trasforma – letteralmente – in
“carne da macello”. Come i malati ricoverati in terapia intensiva,
mostrati nudi e intubati in televisione, a scopo pedagogico, come monito
per la categoria dei cattivi di turno...
È il 9 marzo quando Alessia Bonari, 23 anni, infermiera in un ospedale di Milano, pubblica su Facebook la foto del proprio viso a fine turno, segnato da occhiali e mascherina, per rendere visibile la fatica del lavoro di medici, infermieri e ausiliari impegnati a curare i malati di Covid.
Il 5 settembre, il corpo di Alessia Bonari torna visibile per un giorno, questa volta sul red carpet del festival di Venezia, invitata a ritirare – in quanto infermiera “simbolo” della lotta contro il Covid – il premio “Personaggio dell’anno”. Ora è truccata, pettinata, vestita da uno sponsor. La pelle è tornata liscia e luminosa. Sui social non tardano i commenti alle nuove foto, tutte manifestazioni di affetto e di stima. C’è chi scrive “Finalmente una persona degna di calcare il red carpet”, frase su cui si potrebbe scrivere una tesi di dottorato per le sue implicazioni di senso, a testimonianza della marmellata semiotica nella quale siamo immersi da mesi.
Alessia Bonari è tornata al lavoro in ospedale, per ora,
ma questa piccola storia è un punto di partenza per descrivere e
analizzare il ruolo del corpo nella produzione di simboli e nelle
attribuzioni di senso legate alla pandemia.
È innegabile che il
corpo sia uno dei protagonisti della narrazione visuale di questi mesi.
Rinchiuso, negato, limitato, colpevolizzato, esposto, ostentato. Assente
o appiattito alla bidimensionalità di uno schermo, sofferente in un
letto di ospedale, eroico nelle corsie a curare i malati, ribelle
davanti alle limitazioni a cui viene sottoposto (e sarebbe il caso di
cominciare a smettere di considerare “nuova normalità” l’esperienza di
chi, vivendo solo, si è trovato per mesi a non essere toccato da
nessuno).
Il corpo, insomma, come rappresentazione, così come la
intende Carlo Ginzburg nel saggio “Rappresentazione: la parola, l’idea
la cosa” pubblicato in quella splendida raccolta che è “Occhiacci di
legno” (Quodlibet).
Il concetto di rappresentazione è ambiguo. È
qualcosa che sta al posto di un’altra realtà, quindi evoca un’assenza,
ma è anche ciò che rende visibile quella stessa realtà, quindi
suggerisce una presenza.
Il termine francese “représentation” si riferisce a tavolette di legno o cera, usate nel Medio Evo in Francia e in Inghilterra ai funerali dei re, dei quali portavano l’effigie. Venivano messe sul catafalco del sovrano e ne ricordavano il doppio corpo: quello fisico, destinato alla polvere, e quello politico, immortale, non per motivi religiosi, ma perché legato alla sopravvivenza dell’istituzione.
L’esperienza della virtualità di questi mesi ci rimanda a questo concetto di rappresentazione. L’immagine di una persona cara sullo schermo (imago è chiamata anche la maschera funeraria di cera), l’incontro su Zoom, l’illusione della presenza che si infrange appena l’audio si fa gracchiante, l’immagine si blocca, l’espressione si congela, il viso si pixellizza.
Il corpo – che è
volume – si ritrova appiattito alla bidimensionalità, prigioniero di
una lastra di vetro, come i tre traditori di Krypton condannati da
Marlon Brando, nella scena iniziale di “Superman”, alla prigionia nella
Zona Fantasma, una dimensione parallela dalla quale non è più possibile
uscire.
Il corpo della virtualità è un corpo-quarzo,
smaterializzato, che esiste solo grazie alla tecnologia. Che richiama la
presenza dell’altro e ne ribadisce l’ineluttabile assenza.
Al corpo-quarzo corrisponde lo svuotamento dello spazio pubblico. La socializzazione e la socialità che, come scrive Simmel, ne è la soglia, si spostano dai luoghi fisici che abbiamo conosciuto finora (la parrocchia, la palestra, il circolo Arci, la bocciofila, l’ufficio, il cinema, il teatro, la scuola e l’università…) a piattaforme virtuali.
Le città stesse corrono il rischio di trasformarsi in luoghi non più
“abitati”, ma “attraversati” da persone che anziché “vivere” quegli
spazi, li “percorrono” per transitare da un luogo all’altro.
Una
prospettiva per certi aspetti rassicurante, per quanto distopica.
Nell’immaginario di un mondo sterile e sterilizzato, dove i contatti
sono aboliti, eccetto quelli mediati da uno schermo, spariscono anche le
infezioni. “Il virus smette di circolare”: ripetuto come un mantra o un
esorcismo. �Le malattie, semmai, si limitano a errori di trascrizione,
“sono ‘soltanto’ le minuscole variazioni di codice di un antigene del
sistema immunitario, ‘soltanto’ l’esperienza dello stress”, come scrive
Donna Haraway nel suo “Manifesto Cyborg”, da leggere ovviamente in senso
metaforico.
Cambiamenti che coinvolgono persino la sfera sessuale,
con i virologi che consigliano la masturbazione, il sexting, i rapporti
protetti (nel senso della mascherina) e la loro durata.
Che spazio ha, in questa ormai famigerata “nuova normalità”, il corpo fisico, il corpo-carbonio?
Anch’esso è funzionale a una narrazione, che lo trasforma –
letteralmente – in “carne da macello”. Come i malati ricoverati in
terapia intensiva, mostrati nudi e intubati in televisione, a scopo
pedagogico, come monito per la categoria dei cattivi di turno, in una
messa in scena a metà strada tra il teatro anatomico e la testa del
ribelle giustiziato sulla porta d’ingresso della città.
“Se qualcuno si lamenta perché non può correre, lo porto in un reparto di terapia intensiva così capisce al volo” (www.la7.it/…/coronavirus-il-tuono-di-stefano-bonaccini-se-q…),
aveva minacciato il 20 marzo il presidente dell’Emilia Romagna Stefano
Bonaccini, come se il desiderio fosse una categoria cognitiva, anziché
afferente a strutture cerebrali diverse da quelle legate alla
comprensione razionale. Come se fosse l’annullamento del desiderio
l’obiettivo a cui puntare e non, semplicemente, l’aderenza dei cittadini
a determinate regole di comportamento.
Poi c’è il corpo martoriato di medici e infermieri, da ostendere come la Sindone o una reliquia, a testimonianza di un sacrificio. I visi segnati, le occhiaie, i capelli sudati appiccicati alla testa e al viso, le screpolature alle mani come se fossero stigmate. Foto pubblicate dai giornali, postate sui social, condivide e ricondivise, accompagnate da racconti che ricalcano le stazioni della via crucis. Ecce Homo. �Per poi stupirsi quando ci si accorge che le metafore si usurano e che immagini di quel tipo, postate a luglio, non sortiscono gli stessi effetti che a marzo. E anziché empatia, suscitano reazioni spazientite o di rifiuto.
Per questo ci ha fatto piacere vedere Alessia Bonari riappropriarsi del
suo corpo sul red carpet di Venezia, farne di nuovo una fonte di piacere
e autogratificazione. E ci piacerebbe ancora di più vederla liberata
dal peso dell’essere “simbolo del Covid”, che appiattisce la
soggettività e impedisce di osservare la complessità delle persone e
delle vicende, fatte di luci e ombre.
E quanto a noi, potrà il
corpo-quarzo integrarsi di nuovo nel corpo-carbonio? Ci sentiamo
catapultati a “Flatlandia”, il mondo fantastico creato da Edwin Abbot
Abbot per farne una satira sulla società vittoriana. Un universo
bidimensionale popolato da segmenti, triangoli, poligoni e cerchi. Il
protagonista di “Flatlandia”, un quadrato, incontra una sfera di
Spacelandia, che gli rivela l’esistenza di un mondo tridimensionale,
scoperta davanti alla quale reagisce incredulo. Ma quando anche alla
sfera viene paventata la possibilità di universi con quattro o più
dimensioni, reagirà con la stessa rigidità del quadrato. Come se la
soluzione all’incognito sia non-vivere e l’unica morale generatrice di
senso il sovradattamento, scambiato per resilienza.
Bibliografia
Abbott Abbott, E.; (1882, 1966). “Flatlandia”, Milano: Adelphi.
Davies, M.; (2008). “Città di quarzo”, Castel S. Pietro Romano: Manifestolibri.
Deleuze, G.; (2009). “Foucault”, Napoli: Cronopio.
Ginzburg, C. (2019). “Occhiacci di legno – Dieci riflessioni sulla
distanza”, Macerata: Quodlibet. Haraway, D.; (1995), “Manifesto cyborg.
Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo”, Milano: Feltrinelli.
Simmel, G.; (1903, 1995). “Le metropoli e la vita dello spirito”, Roma: Armando.
(https://www.facebook.com/pillolediottimismo/posts/177817910625355)
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