Ve lo ricordate il portfolio manager di Novartis che profetizzò il rendimento zero per gli investimenti in ricerca farmaceutica entro cinque anni?
Ve lo ricordate l'analista di Goldman Sachs che sosteneva che il business model di Gilead è perdente, perché sviluppare farmaci che GUARISCONO non è economicamente sostenibile?
Vi ricordate quelli che discutono di delinking (scoperto dalla ricerca pubblica, prodotto in Cina - sviluppato non si capisce bene da chi) per abbattere i costi dei farmaci?
L'industria che sviluppa nuovi farmaci non è ben vista (quella che sviluppa o produce vaccini sì). Sarebbe ben vista se tutto il processo di ricerca, sviluppo, immissione in commercio costasse quel che costa un genericista cinese. Ma così non è. E allo stato delle cose (sottolineato) la pressione al ribasso sui prezzi dei farmaci frutto di innovazione significa pressione al ribasso sui livelli occupazionali. Ecco un esempio recente di quanto sia "facile" la vita delle aziende research based.
Fingolimod (Novartis) è stato approvato da FDA nel 2010 per la sclerosi multipla.
Come l'Eribulina (Eisai) è uno degli ultimi frutti della ricerca sui composti naturali.
Fingolimod nasce dal lavoro sulla miriocina.
La miriocina venne isolata per la prima volta nel 1992 da Isaria sinclairii, un fungo che parassita le ninfe delle cicale, usato come tonico nella medicina tradizionale tibetana e in quella cinese. La miriocina è un antibiotico ma sopratutto un'analogo naturale della sfingosina, importante elemento costitutivo della membrana cellulare tramite i fosfolipidi suoi derivati, come la sfingomielina.
Dal Merck Index leggo che Fingolimod è "un immunomodulatore che evoca una redistribuzione reversibile dei linfociti dalla circolazione al tessuto linfatico secondario". E' la proprietà che previene le ricadute nella sclerosi multipla. In più inibisce l'attività delle cellule T citotossiche CD8. Il che provoca vulnerabilità ai virus, ma anche limita gli effetti della sclerosi multipla.
Nel 2010 FDA approva a Novartis Fingolimod. La prima *pillola* per il trattamento della sclerosi multipla - non guarisce, ma evita le ricadute e rallenta la progressione. Non priva di problemi, all'inizio della terapia i pazienti vanno controllati per segnali di insorgenza di edema maculare o problemi cardiaci. E poi c'è la questione dell'accresciuta vulnerabilità alle infezioni virali.
Però è uno strumento importante in grado di migliorare la vita di pazienti con poche opzioni.
Gilenya è il nome commerciale di Fingolimod e sarebbe stato protetto dai brevetti fino al 2027. Ma i genericisti hanno sfidato alcuni brevetti Novartis e hanno vinto. Novartis sta ricorrendo, e se perde ci sarà Fingolimod generico a partire dal 2019, il che vorrebbe dire, per chi lo ha sviluppato, 9 anni di vita in esclusività del prodotto. Un po' poco.
mercoledì 25 luglio 2018
martedì 24 luglio 2018
3+2 E CONSEGUENZE INATTESE
Al centro del vortice mi ricordo, come sempre, le metriche stupide. Negli anni novanta era periodico l'allarme sui media riguardo lo scarso numero di laureati in Italia. L'origine dell'allarme, come spesso accade, erano studi OCSE.
Andando indietro nel tempo di un cinque-dieci anni invece mi ricordo che avevamo un problema di allineamento delle qualifiche. La nostra vecchia laurea era più di un master anglosassone, da un punto di vista del contenuto formativo, e meno di un PhD. Veniva allineata ai master, al ribasso, e i nostri dottorati venivano allineati ai PhD (pure se, secondo molti, erano qualcosa di più). All'incirca in quel periodo cominciai a udire i germi di quel paradigma che avrebbe portato alla situazione attuale. Un rettore in un'intervista ad un quotidiano ebbe a dichiarare che una buona università si fa con buoni studenti. Cosa che a me pareva aberrante (da studente): mi pareva scontato che una buona università si facesse con una buona didattica.
Il modello dei tempi, quello dell'ordinamento antico, non prevedeva numero chiuso. Nessuna barriera all'ingresso e selezione basata sugli esami: quindi alto numero di abbandoni e di fuori corso.
Al primo anno dove avevo iniziato il mio percorso universitario eravamo una quarantina di matricole. All'inizio del secondo anno eravamo una ventina. A seguire i corsi del quinto anno eravamo in dieci.
Venticinque anni dopo, tornando brevemente nel luogo di origine, la situazione era cambiata. L'infame combinato disposto di riforma Gelmini e 3+2 aveva provocato conseguenze per me inimmaginabili. Come mi spiegò un vecchio amico, ancora professore associato all'inizio dei suoi cinquanta anni (come tutti gli altri), il sistema puniva con meno risorse gli abbandoni al primo anno. Soluzione: al primo anno non si fa praticamente niente, si comincia a fare sul serio al secondo, e se li seghiamo lì va bene a tutti (molto razionale, vero?). Ma c'era un problema: per gli stessi motivi, biologia, che tradizionalmente ricopriva anche il ruolo di refugium peccatorum della facoltà di scienze, onde evitare maree di iscritti desiderosi di intraprendere il percorso a più bassa energia offerto dalla facoltà (nonché i "rifugiati" provenienti dal secondo anno di altri corsi di laurea), e quindi il rischio di alto abbandono al primo anno, aveva messo il numero chiuso. Conseguenza, chi non passava il test di ingresso si buttava sul corso di laurea meno ostico rimasto a ingresso libero, cioè chimica. E buona parte di costoro non era in grado di superare l'asticella ormai rasoterra degli esami del primo anno a chimica, e abbandonava, provocando un malus per il dipartimento. Soluzione obbligata, numero chiuso a chimica. Roba da ridere, non fosse in realtà dannatamente tragica.
Qual'era il pregio dell'antico/vecchio ordinamento pre Gelmini e pre Berlinguer? La sua democraticità. A nessuno veniva negato l'accesso. Poi stava a lui riuscire a percorrere la strada. E guarda caso era lo stesso sistema che provveddeva adeguatamente alle borse del Diritto allo Studio per studenti meritevoli provenienti da famiglie economicamente disagiate - risorse largamente evaporate negli anni più recenti. In breve, si offrivano pari opportunità di istruzione universitaria.
Il numero chiuso invece è meritocratico solo in apparenza. Scarica l'onere sulla scuola (di cui tutti conosciamo il declino) e sulle famiglie. E' il sistema all'ammericana, dove ricordiamo che l'università pubblica (come la sanità pubblica) è serie C.
Personalmente resto legato alla vecchia concezione delle socialdemocrazie europee (quella che oggi alcuni stigmatizzano come "comunismo"), del tutto opposta alle concezioni dell'attuale PSE. E sarebbe il caso che si spieghi ai giovani cos'è che la politica degli ultimi vent'anni ha scippato loro.
Ah, inoltre da noi il 3+2, che amplificava la tendenza Gelmini verso la trasformazione dell'università in esamificio/diplomificio, alla fine non è riuscito neanche a fare da booster al numero dei laureati: ancora penultimi in Europa (https://www.ilmessaggero.it/primopiano/scuola_e_universita/eurostat_italia_penultima_laureati_ue-3656318.html). Ma, paradossalmente, ancora esportatori netti di laureati (per dire che nonostante la devastazione riusciamo comunque a sfornare laureati di qualità superiore a quella media internazionale).
I dati dello scorso autunno certificavano il fallimento della riforma.
https://www.roars.it/online/universita-fallita-la-formula-32/
Andando indietro nel tempo di un cinque-dieci anni invece mi ricordo che avevamo un problema di allineamento delle qualifiche. La nostra vecchia laurea era più di un master anglosassone, da un punto di vista del contenuto formativo, e meno di un PhD. Veniva allineata ai master, al ribasso, e i nostri dottorati venivano allineati ai PhD (pure se, secondo molti, erano qualcosa di più). All'incirca in quel periodo cominciai a udire i germi di quel paradigma che avrebbe portato alla situazione attuale. Un rettore in un'intervista ad un quotidiano ebbe a dichiarare che una buona università si fa con buoni studenti. Cosa che a me pareva aberrante (da studente): mi pareva scontato che una buona università si facesse con una buona didattica.
Il modello dei tempi, quello dell'ordinamento antico, non prevedeva numero chiuso. Nessuna barriera all'ingresso e selezione basata sugli esami: quindi alto numero di abbandoni e di fuori corso.
Al primo anno dove avevo iniziato il mio percorso universitario eravamo una quarantina di matricole. All'inizio del secondo anno eravamo una ventina. A seguire i corsi del quinto anno eravamo in dieci.
Venticinque anni dopo, tornando brevemente nel luogo di origine, la situazione era cambiata. L'infame combinato disposto di riforma Gelmini e 3+2 aveva provocato conseguenze per me inimmaginabili. Come mi spiegò un vecchio amico, ancora professore associato all'inizio dei suoi cinquanta anni (come tutti gli altri), il sistema puniva con meno risorse gli abbandoni al primo anno. Soluzione: al primo anno non si fa praticamente niente, si comincia a fare sul serio al secondo, e se li seghiamo lì va bene a tutti (molto razionale, vero?). Ma c'era un problema: per gli stessi motivi, biologia, che tradizionalmente ricopriva anche il ruolo di refugium peccatorum della facoltà di scienze, onde evitare maree di iscritti desiderosi di intraprendere il percorso a più bassa energia offerto dalla facoltà (nonché i "rifugiati" provenienti dal secondo anno di altri corsi di laurea), e quindi il rischio di alto abbandono al primo anno, aveva messo il numero chiuso. Conseguenza, chi non passava il test di ingresso si buttava sul corso di laurea meno ostico rimasto a ingresso libero, cioè chimica. E buona parte di costoro non era in grado di superare l'asticella ormai rasoterra degli esami del primo anno a chimica, e abbandonava, provocando un malus per il dipartimento. Soluzione obbligata, numero chiuso a chimica. Roba da ridere, non fosse in realtà dannatamente tragica.
Qual'era il pregio dell'antico/vecchio ordinamento pre Gelmini e pre Berlinguer? La sua democraticità. A nessuno veniva negato l'accesso. Poi stava a lui riuscire a percorrere la strada. E guarda caso era lo stesso sistema che provveddeva adeguatamente alle borse del Diritto allo Studio per studenti meritevoli provenienti da famiglie economicamente disagiate - risorse largamente evaporate negli anni più recenti. In breve, si offrivano pari opportunità di istruzione universitaria.
Il numero chiuso invece è meritocratico solo in apparenza. Scarica l'onere sulla scuola (di cui tutti conosciamo il declino) e sulle famiglie. E' il sistema all'ammericana, dove ricordiamo che l'università pubblica (come la sanità pubblica) è serie C.
Personalmente resto legato alla vecchia concezione delle socialdemocrazie europee (quella che oggi alcuni stigmatizzano come "comunismo"), del tutto opposta alle concezioni dell'attuale PSE. E sarebbe il caso che si spieghi ai giovani cos'è che la politica degli ultimi vent'anni ha scippato loro.
Ah, inoltre da noi il 3+2, che amplificava la tendenza Gelmini verso la trasformazione dell'università in esamificio/diplomificio, alla fine non è riuscito neanche a fare da booster al numero dei laureati: ancora penultimi in Europa (https://www.ilmessaggero.it/primopiano/scuola_e_universita/eurostat_italia_penultima_laureati_ue-3656318.html). Ma, paradossalmente, ancora esportatori netti di laureati (per dire che nonostante la devastazione riusciamo comunque a sfornare laureati di qualità superiore a quella media internazionale).
I dati dello scorso autunno certificavano il fallimento della riforma.
https://www.roars.it/online/universita-fallita-la-formula-32/
mercoledì 18 luglio 2018
INDUSTRIA, INQUINAMENTO: L'EIETTORE WIEGAND
In più d'uno ha commentato il post sull'incidente di Seveso del 1976 dicendo "già l'azienda di base emetteva inquinanti in piccole quantità". La cosa non dovrebbe stupire. Uno dei problemi più classici della chimica industriale, specialmente se si parla di chimica organica e chimica farmaceutica, è la gestione delle emissioni. E principalmente le emissioni sono vapori di solventi e simili, altresì noti come VOC (Volatile Organics Compunds) - come visto nel post di ieri sullo stabilimento Sanofi Chimie nei PIrenei. Le emissioni provengono in primis da operazioni di distillazione o riflusso, e in particolare dalle distillazioni sotto vuoto.
Il razionale è abbastanza semplice: quando distilli i vapori vengono condensati in scambiatori di calore e il liquido condensato viene raccolto a parte (o riconvogliato nel reattore, in caso di riflusso). Ma quale sarà la pressione parziale dei vapori in uscita dallo scambiatore? Al minimo sarà uguale alla tensione di vapore di quel componente (o di quella miscela di componenti) alla temperatura del liquido refrigerante che scorre dentro gli elementi dello scambiatore. E di solito il liquido refrigerante è acqua fredda (10°C, convenzionalmente). Ma un composto organico volatile è così chiamato perché già a temperatura ambiente la sua tensione di vapore è consistente. Quindi già distillando a pressione atmosferica una minima frazione del solvente se ne va all'aria (o meglio, ai sistemi di abbattimento o di ossidazione catatilica) ogniqualvolta si crei per un qualsiasi motivo una differenza positiva di pressione tra scambiatore e sfiato.
Quando si distilla a pressione ridotta (sotto vuoto) le cose peggiorano sensibilmente, perché c'è il flusso in uscita provocato dalla pompa da vuoto.
Dal post sull'incidente di Seveso avrete capito che l'industria chimica andava a vapore (tuttora, in buona parte). Con il vapore si scaldava, e con il vapore si faceva il vuoto, usando eiettori a vapore.
I tubi di venturi sono stati largamente usati nei laboratori per ottenere basso-medio vuoto (le cosiddette pompe da vuoto ad acqua, in vetro o plastica, che funzionano attaccate ad un rubinetto). Sono basati sull'effetto Venturi (https://it.wikipedia.org/wiki/Effetto_Venturi). In teoria qualsiasi fluido può essere usato con un tubo di venturi per ottenere il vuoto. In pratica oltre l'acqua in laboratorio è stata proposta l'aria compressa (prodotti di scarsa fortuna, nei laboratori di chimica, perché di solito tra i servizi disponibili non c'è aria compressa a media pressione). E in impianti industriali è stato usato il vapore sovrasaturo (surriscaldato).
Se guardate l'illustrazione, che raffigura un eiettore Wiegand, A è l'ingresso del vapore, e B è collegato al sistema dove si vuole ottenere la pressione ridotta. Ora dovrebbe essere abbastanza evidente che assieme al vapore da C esce tutto quanto viene evacuato da B (cioè vapori non condensati provenienti da sistema di reazione).
Negli anni ruggenti i Wiegand venivano installati sul tetto dei reparti. E ovviamente tutto quello che usciva da C andava nell'aria.
La regolazione normativa delle emissioni a partire dagli anni 80 ha fatto gradualmente sparire gli eiettori Wiegand installati per questo uso.
martedì 10 luglio 2018
L'INCIDENTE DI SEVESO (E IL CONTESTO)
La chimica organica industriale degli anni 60 e 70 in Italia non era precisamente "state of the art process chemistry".
C'era una questione di cultura industriale: relativamente pochi laureati, più periti, tanti operai specializzati. Il know how necessario era spesso acquisito tramite consulenze universitarie, ma ho sentito raccontare di contesti in cui a fare il Direttore Tecnico c'era un ragionere cresciuto dentro l'azienda (ancora nei primi anni novanta il responsabile dell'impianto pilota di una chimica farmaceutica non delle meno note era un perito, che sosteneva che i laureati non servivano, in quanto aveva visto un buon numero di chimici organici arrivare in azienda e non riuscire a portare sull'impianto neanche un prodotto nell'arco di un anno - capirai, un chimico puro di indirizzo organico non aveva la minima idea di cosa potesse essere un impianto, figurati portarci sopra una sintesi da 0 appena uscito dall'università).
Di storie balorde degli "anni ruggenti" ne ho sentite davvero tante, ma l'incidente di Seveso del 1976 ha avuto il dubbio onore di diventare un caso di scuola di importanza storica e mondiale nel campo "sicurezza degli impianti chimici".
Il 10 luglio 1976 circa alle 12.30 si verificò nello stabilimento ICMESA l'incidente che provocò il rilascio nell'atmosfera di 1 kg di TCDD (tetraclorodibenzodiossina) (qualcuno ha scritto 13 kg, che sembra decisamente eccessivo). L'effetto acuto fu costituito da 200 casi di cloracne. Ma peggio fu il risultato a lungo termine, con un aumento di casi di mieloma multiplo e leucemia mieloide.
Perché successe? La lavorazione, da quel che ho potuto ricostruire, avveniva in un semitubo di acciaio da 500 l (quindi un reattore piccolo). Ovvero un reattore con una serpentina di semitubo saldata a spirale lungo le pareti, in cui si fa passare il mezzo di scambio termico. La reazione che vi veniva fatta era la sintesi del triclorofenolo da tetraclorobenzene e soda, in glicole etilenico, con il reattore riempito per quattro quinti. La miscela bolliva a 160°C, e la temperatura interna di reazione erano 158°C. Data l'alta temperatura, per scaldare serviva vapore ad alta pressione (o olio diatermico, ma evidentemente non era un servizio disponibile sull'impianto). E presero quello esaurito dalla turbina della centrale elettrica del sito, che usciva a 12 atm (190°C). Ma senza mettere un controllo su temperatura o pressione del vapore in ingresso alla serpentinadel reattore.
Primo punto: venne cominciata una produzione di venerdì, quando il venerdì sera tutto l'impianto doveva essere fermato per il week end. Mentre tutte le altre macchine venivano vuotate e fermate, quel 500 litri continuava a lavorare, ritrovandosi per un breve tempo ad essere scaldato da vapore più caldo del solito (circa 300°C).
Secondo punto: non so se fossero le direttive che imponevano comunque di lasciare spente tutte le macchine, non so se fu l'operatore a farlo senza pensarci. Fatto sta che l'operatore non raffreddò, chiuse il vapore (quindi smise di riscaldare, nella sua testa), fermò l'agitazione (questa è una cosa che a voi non dirà niente, ma quando ho visto gente fermare l'agitazione a reattori pieni ho sempre dato in escandescenze - un reattore deve avere buono scambio termico e buona agitazione, in primo luogo, e un motivo c'è).
Lo spegnimento dell'agitazione fu la prima causa. La parete del reattore sopra il livello del liquido era rimasta sopra i 250°C. In assenza di agitazione cominciò a surriscaldare la parte superiore della massa liquida, facendo partire localmente una reazione parassita inizialmente lenta ma esotermica. Sette ore dopo l'esotermia aveva progressivamente riscaldato la massa reagente, arrivando a 250°C di temperatura interna, innescando una runaway (prima o poi spiegherò la cosa), con forte e veloce aumento della pressione interna. Il reattore era dotato di un disco di scoppio, ovvero di un dispositivo tarato per il rilascio di pressione oltre un certo limite. E questa era una cosa buona. Ma l'uscita del disco di scoppio non era convogliata a nessun sistema di contenimento (classicamente una vasca). Il disco di scoppio era en plein air. E nell'aria rilascio i 400 kg di massa reagente, liquida,spinta dalla pressione dei vapori, comprensiva del famoso chilo di TCDD.
Quindi, riepilogando, nessun controllo su pressione o temperatura del vapore, fermo dell'agitazione, disco di scoppio all'aria: la ricetta di un disastro storico.
(Nell'immagine un disco di scoppio)
C'era una questione di cultura industriale: relativamente pochi laureati, più periti, tanti operai specializzati. Il know how necessario era spesso acquisito tramite consulenze universitarie, ma ho sentito raccontare di contesti in cui a fare il Direttore Tecnico c'era un ragionere cresciuto dentro l'azienda (ancora nei primi anni novanta il responsabile dell'impianto pilota di una chimica farmaceutica non delle meno note era un perito, che sosteneva che i laureati non servivano, in quanto aveva visto un buon numero di chimici organici arrivare in azienda e non riuscire a portare sull'impianto neanche un prodotto nell'arco di un anno - capirai, un chimico puro di indirizzo organico non aveva la minima idea di cosa potesse essere un impianto, figurati portarci sopra una sintesi da 0 appena uscito dall'università).
Di storie balorde degli "anni ruggenti" ne ho sentite davvero tante, ma l'incidente di Seveso del 1976 ha avuto il dubbio onore di diventare un caso di scuola di importanza storica e mondiale nel campo "sicurezza degli impianti chimici".
Il 10 luglio 1976 circa alle 12.30 si verificò nello stabilimento ICMESA l'incidente che provocò il rilascio nell'atmosfera di 1 kg di TCDD (tetraclorodibenzodiossina) (qualcuno ha scritto 13 kg, che sembra decisamente eccessivo). L'effetto acuto fu costituito da 200 casi di cloracne. Ma peggio fu il risultato a lungo termine, con un aumento di casi di mieloma multiplo e leucemia mieloide.
Perché successe? La lavorazione, da quel che ho potuto ricostruire, avveniva in un semitubo di acciaio da 500 l (quindi un reattore piccolo). Ovvero un reattore con una serpentina di semitubo saldata a spirale lungo le pareti, in cui si fa passare il mezzo di scambio termico. La reazione che vi veniva fatta era la sintesi del triclorofenolo da tetraclorobenzene e soda, in glicole etilenico, con il reattore riempito per quattro quinti. La miscela bolliva a 160°C, e la temperatura interna di reazione erano 158°C. Data l'alta temperatura, per scaldare serviva vapore ad alta pressione (o olio diatermico, ma evidentemente non era un servizio disponibile sull'impianto). E presero quello esaurito dalla turbina della centrale elettrica del sito, che usciva a 12 atm (190°C). Ma senza mettere un controllo su temperatura o pressione del vapore in ingresso alla serpentinadel reattore.
Primo punto: venne cominciata una produzione di venerdì, quando il venerdì sera tutto l'impianto doveva essere fermato per il week end. Mentre tutte le altre macchine venivano vuotate e fermate, quel 500 litri continuava a lavorare, ritrovandosi per un breve tempo ad essere scaldato da vapore più caldo del solito (circa 300°C).
Secondo punto: non so se fossero le direttive che imponevano comunque di lasciare spente tutte le macchine, non so se fu l'operatore a farlo senza pensarci. Fatto sta che l'operatore non raffreddò, chiuse il vapore (quindi smise di riscaldare, nella sua testa), fermò l'agitazione (questa è una cosa che a voi non dirà niente, ma quando ho visto gente fermare l'agitazione a reattori pieni ho sempre dato in escandescenze - un reattore deve avere buono scambio termico e buona agitazione, in primo luogo, e un motivo c'è).
Lo spegnimento dell'agitazione fu la prima causa. La parete del reattore sopra il livello del liquido era rimasta sopra i 250°C. In assenza di agitazione cominciò a surriscaldare la parte superiore della massa liquida, facendo partire localmente una reazione parassita inizialmente lenta ma esotermica. Sette ore dopo l'esotermia aveva progressivamente riscaldato la massa reagente, arrivando a 250°C di temperatura interna, innescando una runaway (prima o poi spiegherò la cosa), con forte e veloce aumento della pressione interna. Il reattore era dotato di un disco di scoppio, ovvero di un dispositivo tarato per il rilascio di pressione oltre un certo limite. E questa era una cosa buona. Ma l'uscita del disco di scoppio non era convogliata a nessun sistema di contenimento (classicamente una vasca). Il disco di scoppio era en plein air. E nell'aria rilascio i 400 kg di massa reagente, liquida,spinta dalla pressione dei vapori, comprensiva del famoso chilo di TCDD.
Quindi, riepilogando, nessun controllo su pressione o temperatura del vapore, fermo dell'agitazione, disco di scoppio all'aria: la ricetta di un disastro storico.
(Nell'immagine un disco di scoppio)
CI SONO COSE CHE VANNO SPIEGATE... (SUSCETTIBILI AL MORBILLO IN ITALIA) - I
(...poi anche se le spieghi alle volte non c'è proprio verso, in nessun modo)
Su twitter il genio di turno è arrivato a dirmi che il calo coperture pre 2015 è colpa dei populisti, e che quindi i (quasi) 7000 casi di morbillo da inizio 17 all'ultimo 28 giugno sono colpa dei populisti, e gli inglesi fanno bene ad avercela con i populisti perché è colpa loro.
E già così siamo sul surreale andante. Ma la cosa ha preso una piega grottesca quando si è arrivati a parlare di serbatoio di suscettibili al morbillo in Italia. Eppure a me sembrava un qualcosa di banale, terra terra. Ma non c'è stato verso, e May e Anderson si sono beccati dei "fuffari" per il tramite della mia indegna persona.
Comunque visto che le cose forse non sono così semplici, proviamo a dettagliare.
La teoria generale della dinamica delle malattie infettive prevenibili da vaccino prevede un set di equazioni differenziali, e una riguarda i suscettibili (Anderson, May, Nature 318(6044):323-9 · November 1985) :
dove a è l'età, t il tempo, M la popolazione infantile, v il tasso di vaccinazione, λ la velocità di propagazione dell'infezione, μ la mortalità. La vaccinazione viene ipotizzata con efficacia permanente e del 100%.
Possiamo riscrivere l'equazione così
Senza farsi spaventare, vediamo di spiegare questa equazione.
dM(a,t) è la variazione della popolazione infantile, ovvero fondamentalmente la natalità.
I contributi negativi sono costituiti dal tasso di vaccinazione v(a,t)X, dalla morbilità λ(a,t)X, dalla mortalità dei suscettibili μ(a)X.
Possiamo così semplificare l'equazione (n.b. ovviamente non è un'integrazione dell'equazione in senso stretto):
L'incremento di suscettibili ΔX in un periodo di tempo è uguale ai nati in quel periodo di tempo meno i suscettibili vaccinati in quel periodo di tempo, meno i suscettibili ammalatisi in quel periodo di tempo (ovvero i casi di quell'infezione registrati in quel periodo di tempo), meno i suscettibili deceduti in quel periodo di tempo. Il contributo alla popolazione dei suscettibili nell'anno i lo possiamo quindi scrivere, passando a dati rilevati in quell'anno
Dove vi sono le vaccinazioni per l'anno i e λi i casi di malattia per l'anno i. Notare che μ(a)X l'ho lasciato sotto forma di funzione, perché nessuno registra le morti totali di suscettibili alla malattia y, al massimo quelli che per tale malattia sono deceduti. μ(a) è senz'altro ricavabile, ma X, popolazione totale dei suscettibili, resta ignota.
Ma per determinate finestre temporali una stima sensata di μ(a)X è fattibile. Per esempio, nel caso del morbillo, in un periodo a circolazione dell'infezione abbastanza alta preceduto da un lungo periodo a circolazione altissima, e con un programma di immunizzazione che prima decolla lentamente e poi viene sospeso, con mortalità infantile bassa (anni 80, per essere chiari), in prima battuta per una stima approssimata possiamo considerare μ(a)X sufficientemente piccola da poter essere trascurata (ovvero ritenere che i decessi siano costituiti quasi esclusivamente da soggetti immuni)
Al che per gli anni 80 l'accumulo di suscettibili al morbillo può essere scritto così:
che tradotto vuol dire: accumulo di suscettibili nel decennio uguale a nascite meno vaccinazioni meno casi di morbillo. E ripeto, per le cervici più coriacee, che il conto vale nell'ipotesi di vaccinazione di efficacia permanente e del 100% e mortalità dei suscettibili trascurabile.
giovedì 5 luglio 2018
UN CLASSICO (DELLA PSEUDOMEDICINA?)
Et mulier, quae erat in profluvio sanguinis annis duodecim et fuerat multa perpessa a compluribus medicis et erogaverat omnia sua nec quidquam profecerat, sed magis deterius habebat, cum audisset de Iesu, venit in turba retro et tetigit vestimentum eius; dicebat enim: “ Si vel vestimenta eius tetigero, salva ero ”.
Et confestim siccatus est fons sanguinis eius, et sensit corpore quod sanata esset a plaga.
Et statim Iesus cognoscens in semetipso virtutem, quae exierat de eo, conversus ad turbam aiebat: “ Quis tetigit vestimenta mea? ”.
Et dicebant ei discipuli sui: “ Vides turbam comprimentem te et dicis: “Quis me tetigit?” ”.
Et circumspiciebat videre eam, quae hoc fecerat.
Mulier autem timens et tremens, sciens quod factum esset in se, venit et procidit ante eum et dixit ei omnem veritatem.
Ille autem dixit ei: “ Filia, fides tua te salvam fecit. Vade in pace et esto sana a plaga tua ”.
Il soggetto, un cittadino della Galilea, privo di titoli di studio, essendo stato provato il suo abusivo esercizio della professione medica, di lì a poco veniva condannato a morte con immediata esecuzione della sentenza.
(ovvero, il tema è classico e archetipico; e in troppi lo liquidano come se si trattasse di banali, insignificanti idiozie)
domenica 1 luglio 2018
VACCINI: I GRANDI CLASSICI 3 - ALLUMINIO
Nota di metodo: i dati della miniserie "Grandi Classici" vengono da toxnet, database del National Institute of Health (NIH). Quindi il primo titolato o non titolato che arrivasse a commentare sotto questi post con le parole "cherry picking" sarà spernacchiato.
Alluminio, ovvero la nota dolente. Se sul Thimerosal ormai il consenso è diffuso e può essere eliminato dalle formulazioni, se la formaldeide residua entro i limiti dichiarati non è un problema, con l'alluminio si arriva al punto ineludibile. Anche certi vaccine advocates lo usano come argomento: i vaccini polivalenti per loro sono meglio dei monovalenti perché in questo modo si limita il dosaggio di alluminio. Sull'alluminio quindi il nervosismo è alto, la tensione costante, e la polemica ha dato il peggio di sé, producendo una quantità imponente di ciarpame e idiozie.
Non parleremo qua di Al(0), ovvero alluminio metallico, né di allume di potassio (a quelli che "con l'alluminio in genere non c'è problema" farei acquisire familiarità con AlCl3, Litio Alluminio Idruro, DIBAL-H e soprattutto con il composto più amato, si fa per dire, nella sintesi chimica, il Trimetilalluminio).
Qua parleremo di Alluminio Idrossido, Al(OH)3, ovvero il più diffuso adiuvante usato nella formulazione di vaccini, e quello di cui non si può fare a meno.
E sappiamo bene che, assunto per via orale, ha una tossicità di fatto nulla (ma ci sono casi interazioni con assunzione di alcuni farmaci).
Partiamo ancora una volta da LD50, che ricordo è il dosaggio che provoca la morte nella metà delle cavie usate per il test di tossicologia acuta.
LD50 nel ratto per os è superiore a 5g/Kg. Il che vuol dire che a far mangiare a un ratto idrossido di alluminio è più facile ucciderlo per indigestione o blocco intestinale che per effetti tossici della sostanza.
E la cosa non dovrebbe stupire, date le migliaia di tonnellate di Maalox che gli esseri umani hanno consumato negli ultimi 50 anni.
Quindi non c'è problema? No, non c'è problema a mangiarlo, l'alluminio idrossido. Perché somministrato per iniezione intraperitoneale LD50 nel ratto è 1.1g/Kg. Tossicità sempre molto bassa, ma non paragonabile a quella dell'assunzione orale.
E poi parliamo di LD50, cioè di effetti letali. E quanto agli effetti non letali?
Qui le cose si complicano un poco, e forse qua stanno i motivi del nervosismo di molti.
[Gherardi RK et al; Brain 124 (Pt 9): 1821-31 (2001)]: Miofascite Macrofagica (conseguenze diffusi dolori muscolari e articolari, affaticamento): 40 casi esaminati, in tutti rilevate inclusioni citoplasmatiche di idrossido di alluminio, tutti i soggetti erano stati sottoposti a una o più vaccinazioni e l'insorgenza della malattia in media si è verificata 11 mesi dopo il vaccino.
[Gherardi RK; Rev Neurol (Paris) 159 (2): 162-4 (2003)] Review riguardo la MMF.
(Gherardi è un caso curioso: il paper del 2001 è un lavoro ben fatto che non mi risulta sia mai stato confutato o simili. In tempi più recenti invece si è messo a fare review insalata mista e meta review di dati vetusti di spessore assai più esiguo)
Pubblicazioni originate largamente dal campo degli studi sulla Sindrome della Guerra del Golfo.
E considerato che i soggetti, oltre che a una massicia serie di vaccinazioni, sono stati tutti esposti in proporzioni variabili ad una serie di altri fattori (da particolato di uranio impoverito a tracce di gas nervini), si tratta di studi significativi ma non estrapolabili a condizioni "normali". In più, per vedere un qualche genere di correlazione, andrebbe capito quanto Al(OH)3 fu somministrato nei singoli individui. Altro punto: dal 1990 ad oggi le formulazioni dei vaccini sono cambiate consistentemente, ricordo lo snodo 99-2001 per l'uso di thymerosal.
Ci sono tre articoli su effetti neurotossici in modelli animali, tra cui questo
[Shaw CA, Petrik MS.; J Inorg Biochem. 103 (11): 1555-62 (2009)]. Ma occorre notare che il dosaggio di Al(OH)3 in questi casi è estremamente alto (anche nei dosaggi etichettati "bassi"), oppure si tratta di iniezioni intracraniche. Di scarsa estendibilità per quel che riguarda dosaggi molto bassi nell'uomo.
Shaw è ormai un marchio e una garanzia. Dopo anni di risultati vagamente indiziari, statisticamente non significativi e non conclusivi, ha provato ha ottenere di più ed è stato beccato: falsificazione dei dati, articolo ritirato (https://retractionwatch.com/2017/10/09/journal-retract-paper-called-anti-vaccine-pseudoscience/).
Ovviamente c'è chi, confondendo le carte, fa apparire le conoscenze attuali conclusive, eccome. Prendiamo il fronte vaccinista.
Ormai avrete capito che mediamente a un medico è rimasta addosso poca farmacologia, e quasi niente di chimica e tossicologia.
Un caso di scuola in questo senso è la Dr.ssa Leila Bianchi, pediatra del Meyer di Firenze citata da Iovaccino:
"Se il mercurio non è praticamente più utilizzato - ha spiegato Bianchi - l'alluminio, usato come adiuvante, è difficilmente eliminabile ma è presente in quantità minime: quello assunto con un vaccino è al massimo 4 mg, mentre quello ingerito in un giorno con il latte materno ammonta a 10 mg, che salgono a 40 se il bambino è alimentato con i latti formula e a 120 con il latte di soia. In quanto alle reazioni allergiche, il rischio di svilupparne una con un vaccino è inferiore a quello di diventare presidente degli Stati Uniti"
Che assumere alluminio per os non costituisce un problema lo abbiamo visto, ma abbiamo anche ribadito quel che dovrebbe essere scontato: la modalità di somministrazione cambia l'effetto della sostanza, iniettare e dar da mangiare sono cose assai diverse...
(Mi rendo conto che per la sua onnipresenza nelle formulazioni l'alluminio è un bersaglio attraente per chi contesta i vaccini, ma per inconclusivo intendo proprio che non si può concludere niente in un senso o nell'altro, per i dosaggi attualmente presenti, sulla base dei dati disponibili. Dove andare a cercare? A costo di annoiare chi legge, nei dati di farmacovigilanza).
https://toxnet.nlm.nih.gov/cgi-bin/sis/search/a?dbs+hsdb:@term+@DOCNO+575
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