giovedì 1 ottobre 2020

COVID-19: ANTIVIRALI E LORO PROSPETTIVE

https://cen.acs.org/pharmaceuticals/drug-discovery/Pfizers-novel-COVID-19-antiviral/98/web/2020/09

In una patologia indotta da un'infezione virale un'antivirale serve? Vedete un po' voi...
Al momento gli antivirali contro SARS-CoV-2 sono 3: remdesivir, che è alla fine del percorso di approvazione, e MK-4482, che invece è ancora in fase di sperimentazione clinica (quindi non sappiamo come andrà a finire). Sono entrambi inibitori di RdRp, la proteina che il virus usa per duplicare il proprio genoma. Inibendola si blocca quindi la replicazione virale.
Le soluzioni antivirali ottimali però mirano a almeno due diverse proteine del virus: in questo modo si minimizza il rischio di insorgenza di mutazioni indotte dall'agente antiinfettivo e magari si aumenta anche l'attività antivirale complessiva.
Classicamente il bersaglio preferito dopo le proteine che provvedono alla replicazione del genoma sono le proteasi dei virus, indispensabili al processo di "maturazione" dei nuovi virioni (lo stracitato e, quest'anno, malamente usato lopinavir come inibitore della proteasi di HIV funziona alla grande).
Ma da mesi con gli inibitori di proteasi di SARS-CoV-2 marcava male. Una certa attività da gruppi accademici aveva prodotto composti poco attivi o evidenti vicoli ciechi quanto a ottimizzazione di struttura/attività.
Ora si scopre che Pfizer (chi l'avrebbe mai detto) aveva la sua collezione di composti attivi prodotta  ai tempi della SARS, e che ci hanno messo mano, tirando su a tempo di record un profarmaco (un estere fosforico) del loro vecchio PF-00835231, inibitore della proteasi di SARS-CoV, che è risultata avere il sito attivo di fatto identico a quello della proteasi di SARS-CoV-2.
E così il primo inibitore di proteasi di SARS-CoV-2 ha cominciato il percorso delle sperimentazioni cliniche. Vada a finire bene o male, resta un primo passo importante.

Ah, a proposito di antivirali... leggo, su remdesivir, che non è risolutivo, quindi niente. Ci si lamenta dei numeri delle terapie intensive ma qualcosa che riduce il tempo di permanenza in terapia intensiva di un terzo (o, in prospettiva, un combo che lo riduce del 50%) non interessa, no grazie, non si compra nulla, sa, cercavamo la compressa da 50 cent che si prescrive al paziente a casa e che risolve il tutto in 24 ore... complimenti vivissimi.

(Repetita, sui giornali avete letto che alla Regia Accademia  di Farmacologia di Vergate sul Membro hanno visto che il viagra funziona in vitro contro COVID a concentrazioni 40 uM? Mi interessa poco. Chiedetevi semmai perché non c'era questo).


mercoledì 30 settembre 2020

COVID, IL-6/JAK E TRIAL CLINICI

 


La mia impressione è che quando si parla di trial per trattamenti contro COVID ci sia un problema di fondo: difficile arruolare gruppi omogenei di pazienti su cui un trattamento standardizzato produca effetti netti e statisticamente significativi. O se volete, difficile individuare un regime standardizzato che produca effetti netti e statisticamente significativi nella eterogenea popolazione dei pazienti COVID ospedalizzati.
Non riesco a spiegarmi altrimenti le vicende di tocilizumab: nel trial COVACTA non riesce a raggiungere gli endpoint, nel trial EMPACTA invece sì (https://www.fiercepharma.com/pharma/roche-s-actemra-helps-covid-19-patients-stay-away-from-ventilation-despite-earlier-trial), anche se i risultati non sono eclatanti.
Gli esiti di COVACTA e il fallimento di sarilumab mettevano in dubbio la prevalenza dell'asse IL-6/JAK/STAT nella patologia dei pazienti COVID gravi.
Per quello che può contare la mia opinione, era ancora presto per cestinare l'ipotesi (il quadro complessivo era ancora troppo concordante, per farlo).
Ora non solo i risultati di EMPACTA cambiano la prospettiva, ma soprattutto il trial NIAID baricitinib/remdesivir ha cominciato a fornire dati, e vengono annunciati risultati positivi (decisamente positivi): l'endpoint primario era una riduzione del tempo di guarigione rispetto al solo remdesivir, e si annuncia che è stato raggiunto (vedremo poi i dati, di cui si annuncia la pubblicazione https://investor.lilly.com/news-releases/news-release-details/baricitinib-combination-remdesivir-reduces-time-recovery).
Baricitinib, per chi non si ricorda le puntate precedenti, è uno dei due inibitori JAK che sono stati usati su pazienti COVID gravi (l'altro è ruxolitinib).
Mi ricordo di quando a marzo persona informata dei fatti mi passava alcuni casi, e in uno con la combinazione baricitinib/remdesivir era stato ripreso per i capelli un paziente gravissimo destinato a morte certa.
Quindi le prospettive sul fronte trattamenti continuano a migliorare (e l'ipotesi della prevalenza dell'asse IL-6/JAK/STAT regge).
Che poi in Europa questi trattamenti diventino disponibili, come abbiamo visto, è tutto un altro paio di maniche.
(Ah, sui giornali avete letto che nell'Università Z di Cessolandia in vitro hanno visto che la zampa di lucertola funziona contro COVID? Mi interessa poco. Chiedetevi semmai perché non c'era questo).

lunedì 28 settembre 2020

CHE FINE HA FATTO SOLIDARIETA'?

Ve lo ricordate SOLIDARITY, il trial OMS?
E' sparito dalla scena, a quanto pare.
I bracci erano:
Idrossiclorochina
Lopinavir/Ritonavir
Lopinavir/Ritonavir + interferone
Remdesivir

Idrossiclorochina è stato sospeso a giugno, per evidente mancanza di benefici, ma solo nei pazienti ospedalizzati. Continuano a sperare nei non ospedalizzati?
Lopinavir/Ritonavir è stato sospeso a luglio, anche qua evidente mancanza di benifici.
Silenzio tombale su Lopinavir-interferone e remdesivir.

 
Se idrossiclorochina un razionale, andando a cercare bene, lo poteva avere (IL-6), Lopinavir è stata la vicenda più allucinante che io abbia mai visto. Centinaia di migliaia di pazienti dosati, senza risultati, perché uno studio osservazionale su un piccolo campione ai tempi della SARS aveva rilevato possibili benefici.
Quando il virus è stato isolato, a febbraio, i valori dell'attività in vitro di lopinavir erano tali da farlo immediatamente scartare. E invece si è continuato per mesi e a quanto pare si continua ancora, in combinazione con l'interferone (a quanto pare la comunità medica internazionale nel rational drug development non ci crede neanche un po').
Davanti a questo incredibile fuoco di fila più d'uno si è chiesto di quanto tempo abbiamo accelerato la comparsa di ceppi di HIV resistenti a lopinavir (cose che possono succedere, di solito, quando cominci a usare grandi quantità di antiinfettivi a gonadi di loppide maschio). Già perché Lopinavir è un AntiRetroVirale usato contro HIV. Ricordo che in aprile Magrini, direttore di AIFA, voleva farlo prescrivere dai medici di base ai malati covid a casa, Lopinavir (e già eravamo un pezzo avanti, quanto a cognizioni su strumenti terapeutici vecchi e nuovi).
Per carità, in primavera in tutto il mondo spuntavano medici che trattavano pazienti a casaccio con laqualunque. Ma lopinavir è stata una cosa istituzionale e perlopiù propria delle istituzioni mediche (ancora a fine aprile figurava nei protocolli della SIMIT).

Ho scritto che questa pandemia ha visto sforzi e risultati inimmaginabili in tre-quattro mesi da parte della ricerca farmaceutica (e medica). Ma sono stati fenomeni, per quanto rilevanti, minoritari. La maggioranza stolidamente e cieca alle evidenze andava a lopinavir.
Probabilmente c'è chi pensa che questo episodio non costituisca un problema. Lopinavir costa poco, provarci comunque era doveroso (è così che si ragiona).

domenica 27 settembre 2020

DOVE LA SCIENZA FINISCE, INIZIA LA FANTASCIENZA (E IL GROTTESCO SELVAGGIO)

 

https://www.leggo.it/sanita/covid_virus_mutato_resiste_mascherine_distanziamento_lavaggio_mani_24_settembre_2020-5482758.html

Da non crederci. Vero che la metapandemia della comunicazione ci ha offerto di tutto, finanche il virus che viaggiava da nazione a nazione con lo spirar dei venti. Ma qua siamo un pezzo avanti.

Eh, il virus che muta... mutazioni sintetiche che non sopravvivono nel tempo, mutazioni che lo hanno reso innocuo, mutazioni così e mutazioni cosà e ora... 

E ora è definitivo: il virus acquisirà il gene del teletrasporto:

https://www.tpi.it/esteri/coronavirus-la-mutazione-resiste-a-mascherine-distanziamento-e-lavaggio-delle-mani-20200925671490/

Che la prima vittima della pandemia fosse stato il buonsenso s'era capito da gennaio. Oggi siamo al puro delirio, e impazza sui grandi media.


venerdì 25 settembre 2020

LA PROPAGANDA POLITICO-SANITARIA

 
E c'è chi dice che nessuno parla seriamente di un un nuovo lockdown...
TG2 Post fornisce un rapido quadro degli orientamenti, sia medici che nella "comunicazione della pandemia".

La seconda ondata è gia qui (dove? boh).
Un nuovo lockdown è inevitabile (!)
La mascherina all'aperto, sempre (!)
Vaccino antiinfluenzale per consentire la diagnosi differenziale (ma basta! https://ilchimicoscettico.blogspot.com/2020/04/e-perche-non-lantiebola.html)
Non esistono trattamenti specifici per il COVID, occorre aspettare il vaccino (!)

Strumenti terapeutici: "abbiamo soltanto santo cortisone, remdesivir ha un costo proibitivo ed è stato approvato grazie ad una forte pressione sull'agenzia regolatoria americana perché siamo in campagna elettorale in quel paese, non ci troviamo davanti a un farmaco che realmente cambia la storia della malattia" (Ippolito - le pressioni del perfido Trump devono essere arrivate fino a EMA costringendola a concedere una CMA, evidentemente)

(Richeldi fondamentalmente equilibrato, il resto bah)

A parte che semmai è desametasone, che funziona, e non cortisone (e NON SONO LA STESSA COSA), è chiaro che non si vuole assolutamente spendere 2000 euro di remdesivir per ogni ospedalizzato per COVID (piuttosto crepino velocemente, così sgomberano i posti in intensiva?).

Questa è l'informazione che si sta facendo, e qualcuno si impunta a dire che chi dipinge un quadro un po' diverso è polarizzante?
Questa non è comunicazione medico-scientifica. E' ideologia e propaganda.

http://www.tg2.rai.it/dl/tg2/rubriche/PublishingBlock-8a6d96c0-2f11-41ec-8539-042bbf407d1e.html

giovedì 24 settembre 2020

SEGUIRE LA SCIENZA? UN NONSENSO

 Mi ricordo un idiota fatto e rifinito che su twitter mi rispose "La scienza, devi seguire. Segnatelo" (classico esempio di sinistrese demarxistizzato). "Segui la scienza" di solito lo dice chi di scienze non ha mai capito una mazza, però lo urlano forte. Sabine Hossenfelder in questo video, giustamente energico, mette i puntini sulle i. Ne traduco il brano iniziale


"Oggi voglio dirvi perché ho dovuto smettere di leggere news sulla scienza del clima, perché mi fanno arrabbiare. Ogni singola volta. Questi left-wing do-gooders sono così fottutamente stupidi da trarre le proprie conclusioni, così non è abbastanza venirmi a dire qual è la correlazione tra un uragano, la sua intensità e l'umidità dell'aria, no, devono anche dirmi che, quindi, dovrei fare una donazione per salvare gli orsi polari.
C'è questo implicito collegamento: la Scienza dice questo, quindi tu devi fare quest'altro.
Segui la scienza, smetti di prendere aerei.
Segui la scienza, diventa vegano.
Segui la scienza e incollati a un bus, perché sicuramente questa è la logica conclusione da trarre dall'osservato indebolimento della circolazione atlantica meridionale.
Quando ero giovane abbiamo imparato che la scienza non dice niente riguardo a quello che dovremmo fare. Cosa dovremmo fare è questione di opinioni, la scienza è questione di fatti.
La scienza ci dice in che situazione siamo e quali sono le probabili conseguenze delle nostre azioni. Ma non ci dice quel che dobbiamo o non dobbiamo fare."


martedì 22 settembre 2020

PANDEMIC SHOW



Di numeri e corpi, si direbbe.
Interessante pezzo di Francesca Capelli su PDO. Leggendolo mi è parso che alla fine la famosa premessa di Guy Debord si sia finalmente realizzata in toto:
"L'intera vita delle società, in cui dominano le moderne condizioni di produzione, si annuncia come un immenso accumulo di spettacoli. Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione." (La società dello spettacolo).
Come nei "migliori tempi" della campagna di vaccine advocacy del 2017, il disease mongering ha riempito i media e la rete, con pazienti intubati, volti mascherinati, volti scavati da occhiali e maschera, in parallelo ai numeri (positivi, ricoveri, terapie intensive). Il morbillo 2017 come grande prova generale.
Ironico che la memoria della rete, quanto a spettacolarizzazione del virus, ci ricordi che a gennaio era un cavallo di battaglia della lotta all'allarmismo, molto ironico (https://www.wired.it/attualita/media/2020/01/31/coronavirus-media-italiani-spettacolarizzazione/?refresh_ce=).
A Debord l'infermiera sul red carpet sarebbe piaciuta molto. "Ecco, avete visto?" avrebbe detto.
 

DA ZOOM ALLA TERAPIA INTENSIVA, DAL CARBONIO AL QUARZO,
LA RAPPRESENTAZIONE DEL CORPO AL TEMPO DEL COVID

di Francesca Capelli
Sociologa, ricercatrice, giornalista
Università del Salvador, Buenos Aires

Il corpo della virtualità è un corpo-quarzo, smaterializzato, che esiste solo grazie alla tecnologia. Al corpo-quarzo corrisponde lo svuotamento dello spazio pubblico. La socializzazione e la socialità si spostano dai luoghi fisici che abbiamo conosciuto finora a piattaforme virtuali.
Il corpo fisico, invece, è il corpo-carbonio. Anch’esso è funzionale a una narrazione, che lo trasforma – letteralmente – in “carne da macello”. Come i malati ricoverati in terapia intensiva, mostrati nudi e intubati in televisione, a scopo pedagogico, come monito per la categoria dei cattivi di turno...


È il 9 marzo quando Alessia Bonari, 23 anni, infermiera in un ospedale di Milano, pubblica su Facebook la foto del proprio viso a fine turno, segnato da occhiali e mascherina, per rendere visibile la fatica del lavoro di medici, infermieri e ausiliari impegnati a curare i malati di Covid.

Il 5 settembre, il corpo di Alessia Bonari torna visibile per un giorno, questa volta sul red carpet del festival di Venezia, invitata a ritirare – in quanto infermiera “simbolo” della lotta contro il Covid – il premio “Personaggio dell’anno”. Ora è truccata, pettinata, vestita da uno sponsor. La pelle è tornata liscia e luminosa. Sui social non tardano i commenti alle nuove foto, tutte manifestazioni di affetto e di stima. C’è chi scrive “Finalmente una persona degna di calcare il red carpet”, frase su cui si potrebbe scrivere una tesi di dottorato per le sue implicazioni di senso, a testimonianza della marmellata semiotica nella quale siamo immersi da mesi.

Alessia Bonari è tornata al lavoro in ospedale, per ora, ma questa piccola storia è un punto di partenza per descrivere e analizzare il ruolo del corpo nella produzione di simboli e nelle attribuzioni di senso legate alla pandemia.
È innegabile che il corpo sia uno dei protagonisti della narrazione visuale di questi mesi. Rinchiuso, negato, limitato, colpevolizzato, esposto, ostentato. Assente o appiattito alla bidimensionalità di uno schermo, sofferente in un letto di ospedale, eroico nelle corsie a curare i malati, ribelle davanti alle limitazioni a cui viene sottoposto (e sarebbe il caso di cominciare a smettere di considerare “nuova normalità” l’esperienza di chi, vivendo solo, si è trovato per mesi a non essere toccato da nessuno).

Il corpo, insomma, come rappresentazione, così come la intende Carlo Ginzburg nel saggio “Rappresentazione: la parola, l’idea la cosa” pubblicato in quella splendida raccolta che è “Occhiacci di legno” (Quodlibet).
Il concetto di rappresentazione è ambiguo. È qualcosa che sta al posto di un’altra realtà, quindi evoca un’assenza, ma è anche ciò che rende visibile quella stessa realtà, quindi suggerisce una presenza.

Il termine francese “représentation” si riferisce a tavolette di legno o cera, usate nel Medio Evo in Francia e in Inghilterra ai funerali dei re, dei quali portavano l’effigie. Venivano messe sul catafalco del sovrano e ne ricordavano il doppio corpo: quello fisico, destinato alla polvere, e quello politico, immortale, non per motivi religiosi, ma perché legato alla sopravvivenza dell’istituzione.

L’esperienza della virtualità di questi mesi ci rimanda a questo concetto di rappresentazione. L’immagine di una persona cara sullo schermo (imago è chiamata anche la maschera funeraria di cera), l’incontro su Zoom, l’illusione della presenza che si infrange appena l’audio si fa gracchiante, l’immagine si blocca, l’espressione si congela, il viso si pixellizza.

Il corpo – che è volume – si ritrova appiattito alla bidimensionalità, prigioniero di una lastra di vetro, come i tre traditori di Krypton condannati da Marlon Brando, nella scena iniziale di “Superman”, alla prigionia nella Zona Fantasma, una dimensione parallela dalla quale non è più possibile uscire.
Il corpo della virtualità è un corpo-quarzo, smaterializzato, che esiste solo grazie alla tecnologia. Che richiama la presenza dell’altro e ne ribadisce l’ineluttabile assenza.

Al corpo-quarzo corrisponde lo svuotamento dello spazio pubblico. La socializzazione e la socialità che, come scrive Simmel, ne è la soglia, si spostano dai luoghi fisici che abbiamo conosciuto finora (la parrocchia, la palestra, il circolo Arci, la bocciofila, l’ufficio, il cinema, il teatro, la scuola e l’università…) a piattaforme virtuali.

Le città stesse corrono il rischio di trasformarsi in luoghi non più “abitati”, ma “attraversati” da persone che anziché “vivere” quegli spazi, li “percorrono” per transitare da un luogo all’altro.
Una prospettiva per certi aspetti rassicurante, per quanto distopica. Nell’immaginario di un mondo sterile e sterilizzato, dove i contatti sono aboliti, eccetto quelli mediati da uno schermo, spariscono anche le infezioni. “Il virus smette di circolare”: ripetuto come un mantra o un esorcismo. �Le malattie, semmai, si limitano a errori di trascrizione, “sono ‘soltanto’ le minuscole variazioni di codice di un antigene del sistema immunitario, ‘soltanto’ l’esperienza dello stress”, come scrive Donna Haraway nel suo “Manifesto Cyborg”, da leggere ovviamente in senso metaforico.
Cambiamenti che coinvolgono persino la sfera sessuale, con i virologi che consigliano la masturbazione, il sexting, i rapporti protetti (nel senso della mascherina) e la loro durata.

Che spazio ha, in questa ormai famigerata “nuova normalità”, il corpo fisico, il corpo-carbonio?
Anch’esso è funzionale a una narrazione, che lo trasforma – letteralmente – in “carne da macello”. Come i malati ricoverati in terapia intensiva, mostrati nudi e intubati in televisione, a scopo pedagogico, come monito per la categoria dei cattivi di turno, in una messa in scena a metà strada tra il teatro anatomico e la testa del ribelle giustiziato sulla porta d’ingresso della città.
“Se qualcuno si lamenta perché non può correre, lo porto in un reparto di terapia intensiva così capisce al volo” (www.la7.it/…/coronavirus-il-tuono-di-stefano-bonaccini-se-q…), aveva minacciato il 20 marzo il presidente dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini, come se il desiderio fosse una categoria cognitiva, anziché afferente a strutture cerebrali diverse da quelle legate alla comprensione razionale. Come se fosse l’annullamento del desiderio l’obiettivo a cui puntare e non, semplicemente, l’aderenza dei cittadini a determinate regole di comportamento.

Poi c’è il corpo martoriato di medici e infermieri, da ostendere come la Sindone o una reliquia, a testimonianza di un sacrificio. I visi segnati, le occhiaie, i capelli sudati appiccicati alla testa e al viso, le screpolature alle mani come se fossero stigmate. Foto pubblicate dai giornali, postate sui social, condivide e ricondivise, accompagnate da racconti che ricalcano le stazioni della via crucis. Ecce Homo. �Per poi stupirsi quando ci si accorge che le metafore si usurano e che immagini di quel tipo, postate a luglio, non sortiscono gli stessi effetti che a marzo. E anziché empatia, suscitano reazioni spazientite o di rifiuto.

Per questo ci ha fatto piacere vedere Alessia Bonari riappropriarsi del suo corpo sul red carpet di Venezia, farne di nuovo una fonte di piacere e autogratificazione. E ci piacerebbe ancora di più vederla liberata dal peso dell’essere “simbolo del Covid”, che appiattisce la soggettività e impedisce di osservare la complessità delle persone e delle vicende, fatte di luci e ombre.
E quanto a noi, potrà il corpo-quarzo integrarsi di nuovo nel corpo-carbonio? Ci sentiamo catapultati a “Flatlandia”, il mondo fantastico creato da Edwin Abbot Abbot per farne una satira sulla società vittoriana. Un universo bidimensionale popolato da segmenti, triangoli, poligoni e cerchi. Il protagonista di “Flatlandia”, un quadrato, incontra una sfera di Spacelandia, che gli rivela l’esistenza di un mondo tridimensionale, scoperta davanti alla quale reagisce incredulo. Ma quando anche alla sfera viene paventata la possibilità di universi con quattro o più dimensioni, reagirà con la stessa rigidità del quadrato. Come se la soluzione all’incognito sia non-vivere e l’unica morale generatrice di senso il sovradattamento, scambiato per resilienza.

Bibliografia
Abbott Abbott, E.; (1882, 1966). “Flatlandia”, Milano: Adelphi.
Davies, M.; (2008). “Città di quarzo”, Castel S. Pietro Romano: Manifestolibri.
Deleuze, G.; (2009). “Foucault”, Napoli: Cronopio.
Ginzburg, C. (2019). “Occhiacci di legno – Dieci riflessioni sulla distanza”, Macerata: Quodlibet. Haraway, D.; (1995), “Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo”, Milano: Feltrinelli.
Simmel, G.; (1903, 1995). “Le metropoli e la vita dello spirito”, Roma: Armando.

(https://www.facebook.com/pillolediottimismo/posts/177817910625355)

 

CHI SONO? UNO COME TANTI (O POCHI)

Con una laurea in Chimica Industriale (ordinamento ANTICO, come sottolineava un mio collega più giovane) mi sono ritrovato a lavorare in ...